Instagram: abbiamo un problema (di overexposure)

Foto di Michael Bußmann, da Pixabay

Turismo di massa e instagrammabilità: fenomeni connessi? Pare proprio di si. Ma quali sono le conseguenze dell’inarrestabile desiderio di esserci, per apparire?

Qualche tempo fa mi è capitata una cosa strana.

Dopo diversi anni, sono ritornata a far visita a un borgo abbandonato che ricordavo immerso nel silenzio dell’abbandono. Presa dal suo consueto e ammaliante fascino, non ho compreso subito cosa stesse accadendo: ogni passo andava al ritmo non solo delle palpitazioni del cuore davanti a cotanto misterioso paesaggio, ma anche a quello di uno di quei tormentoni musicali dal successo proporzionale alla capacità di fissarsi nella mente anche quando non vuoi. Cosa stava succedendo? Com’era possibile che, dal nulla e nel niente, quelle note potessero diffondersi facendomi sentire quasi in una sorta di mega video clip? Girando l’angolo, ho compreso: un chiosco di bibite stava proprio lì e, mentre assolveva alla sua funzione di rinfrescare e rigenerare turisti e visitatori, s’imputava anche il diritto di sembrare un carillon attivato per riempire di note e di vita un sito fantasma.

Per carità: questo è segno, sì, che la località in questione non è più meta d’avanscoperta per pochi Indiana Jones dei viaggi e che la sua notorietà è espressione anche della generazione di nuove economie e posti di lavoro, ma quell’inaspettata colonna sonora mi ha poi portato a riflettere su un discorso più ampio. Quel luogo è, nel corso degli anni, diventato una meta turistica di rilievo. Un posto ameno riconosciuto e riconoscibile. Uno scenario da immortalare irrinunciabile. In altre parole: un luogo instagrammabile.

Instagrammabile: il neologismo per eccellenza che sancisce gran parte delle decisioni di molti, ultimamente. Qualsiasi cosa venga definita così, finisce per indicare quello che off line è particolarmente adatto a diventare contenuto fotografico o video da condividere on line, su Instagram. Chi, nel suo quotidiano parlare, non ha utilizzato almeno una volta questo termine? E chi non lo ha digitato sui motori di ricerca anche per caso? Provare per credere: in materia travel è impressionante il numero di risultati connessi. Città per città, regione per regione, Paese per Paese.

Tante sono infatti le destinazioni turistiche scoperte e riscoperte grazie alla loro instagrammabilità e tanti i luoghi che si sono reinventati a questo scopo, in un passaggio dal reale al virtuale che segna il tempo (e i tempi) della percezione.

Mega, maxi e micro influencer (e creator e opinion leader) tanto quanto gli utenti comuni hanno letteralmente preso d’assalto questi siti, puntando allo scenario più adatto per la foto epica che lasci il segno nel mondo del web. Molti, inoltre, coloro i quali hanno scelto vacanze e soggiorni preventivando lo scatto perfetto e la quantità di serotonina sprigionata dai cuoricini e le visualizzazioni su Instagram e che rendono sicuramente più appetibile e soddisfacente la meta.

Ma se con l’instagrammabilità da un lato è possibile puntare l’attenzione sugli effetti positivi che questa produce (come l’economia che gira, i servizi e l’offerta che aumentano per soddisfare una sempre crescente domanda, le idee creative e giocose che si mettono in campo per animare e attirare), da un altro punto di vista mette a fuoco l’annosa questione della godibilità di quello che si finisce per guardare solo attraverso lo schermo, in formato pixel. E non solo.

Filari di lavanda e campi di girasole; monumenti, musei e luoghi d’arte; beautiful landscape che diventano beautiful destination a suon di hashtag e guide d’ausilio per ricercare il posto giusto per il gusto di postare lo scatto utile a ricevere consenso, apprezzamento e interazioni rischiano, però, di rendere ordinario lo straordinario. Luoghi letteralmente presi d’assalto che diventano meta di pellegrinaggio di chi vuole esserci a tutti i costi, votando la propria presenza all’inclusione esclusiva nel giro del così fan tutt*; punti di vista unici ma unificati, file e attese per immortalare dalla stessa posizione e alla stessa ora scenari saturi per colori, filtri e quantità; immagini che diventano pezzi di un puzzle moltiplicato all’infinito, sempre uguale.

Se nel ‘900 Walter Benjamin ha discusso e trattato il tema dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, oggi forse è possibile accennare a una nuova teoria, quella della riproduzione digitale ripetuta e condivisa. @insta_repeat per esempio, si è assunto proprio questo compito arduo: mostrare la replicabilità dell’instagrammabilità. Pubblicando collage composti d’immagini raccolte qua e là di tutte le mete più gettonate, insta_repeat rende più semplice rendersi conto di quanto il desiderio di mostrare di esserci stati in quel posto faccia correre il rischio di utilizzare uno schema semiotico e percettivo che rende il risultato, sì, subito riconoscibile e collettivo, ma sempre uguale. Più forte è la volontà di assolvere a questo vanitoso obiettivo, più si ridimensiona il vero scopo di un viaggio: la scoperta e il desiderio di raccontare, in modo personale e creativo, un’esperienza dal proprio punto di vista.

dall’account @insta_repeat

Ma non è solo questo il rovescio di una brillante medaglia fatta di luoghi ameni e location esclusive. Nel 2019, fece scalpore il caso degli abitanti del colorato e caratteristico Rue Crémieux che decisero di dire basta all’assalto indiscriminato dei visitatori, costituendo addirittura un comitato per chiedere al comune di Parigi di disciplinare gli ingressi nel vicolo. Perché? Perché non tutti i turisti armati di smartphone e voglia di instagrammabilità hanno mostrato, per i posti che visitano e le persone che ci abitano, lo stesso rispetto, la stessa cura e la stessa attenzione che ci mettono nel produrre i propri contenuti. L’account @clubcremieux ha messo in mostra proprio cosa può accadere in una meta affetta dal fascino discreto dell’instagrammabilità, cogliendo la qualunque nel mentre della propria indiscreta socialità.

dall’account @clubcremieux

Andando ancora più indietro nel tempo, chi ricorda il progetto Yolocaust? Si trattava di un progetto-denuncia a firma di Shahak Shapira (@shahak – autore satirico israeliano e berlinese di adozione) che, infastidito dal comportamento molesto e irrispettoso dei turisti al Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa di Berlino, nel quartiere Mitte, decise di riprendere i selfie e le foto ricordo più discutibili condivisi su Instagram, ricontestualizzandoli nella situazione che fu e che è il cuore e l’anima di quel monumento e di tutto quello che evoca e che non va mai dimenticato. Incredibile, vero?

Il rispetto dei luoghi, nella memoria e nell’essere: le liste dei posti che sembrano essere stati rovinati dai post su Instagram è lunga. Niente più privacy per i residenti. Calca, folla e assembramenti. Quiete perduta. Integrità ed equilibrio minati da una più facile violabilità. Salvaguardia personale e dei siti a rischio. Pose estreme per scatti estremi. Inquinamento e disordine. Queste sono le conseguenze di una sorta di gentrificazione in atto per un pugno di cuoricini, esaminate anche da studi d’approfondimento su questo fenomeno.

Un’analisi che non vuol essere una sentenza, ma che sottolinea il rischio di un fenomeno in espansione e potenzialmente fuori controllo che potrebbe diventare una condanna per molti luoghi.

Non tutti i creatori di contenuti digitali di qualsiasi natura e forma sono tutti brutti, sporchi e cattivi. Ma, citando Blaise Pascal “La vanità è così radicata nel cuore dell’uomo, che ciascuno di noi vuole essere ammirato, perfino me che scrivo queste parole, e voi che le leggete.” Vale per me. Vale per tutti, IMHO. Continuiamo a raccogliere emozioni in foto, ma rispettiamo. E rispettiamoci. Sempre.

Per approfondire:

Cómo los influencers están dañando sitios idílicos con su uso de Instagram, di Beatriz Serrano. El Pais, maggio 2022;

Yolocaust. Un selfie a Berlino, nel Memoriale dell’Olocausto, di Helga Marsala. Artribune, 2017;

Parigi, via presa d’assalto da utenti Instagram: i residenti sbottano, SkyTG24, 2019.

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