Quando pensiamo al linguaggio tecnico degli addetti ai lavori del settore comunicazione e marketing, la testa si riempie di un lessico ricco di termini anglofoni. Anche ciò che sarebbe facilmente traducibile in italiano, rimane in lingua: sembra che detto in inglese suoni più professionale, come se chi usa sigle come K.P.I. o parole come “digital strategy” sia più “figo” e preparato di chi usa l’equivalente italiano.
Al contrario, se usiamo questi termini fuori dal “nostro ambiente”, magari davanti ad un cliente, l’effetto che sortiamo è spesso quello di intimorire con paroloni altisonanti o peggio ancora di insospettirlo. Nella nostra vita da consulenti, ci siamo resi conto che esagerare con questo lessico con chi è estraneo al marketing non aiuta a creare rapporti di fiducia, tutt’altro. Spesso i clienti provengono da esperienze pregresse non soddisfacenti, in cui il consulente di turno ha venduto in passato più fumo del dovuto, ricorrendo proprio ad un linguaggio troppo ricco di parole inglesi specifiche e povero, in realtà, di idee concrete di comunicazione.
A portare l’attenzione sull’argomento è stato un esperto di comunicazione come Paolo Iabichino, Chief Creative Officer presso Ogilvy & Mather Italy, durante il suo intervento al Brand Festival di Jesi che si è tenuto dal 6 al 13 aprile, nel bellissimo teatro Pergolesi.
“Il mondo della comunicazione è invaso dalla lingua inglese” esordisce, facendo notare a tutti i presenti in sala che il vocabolario del marketing non solo è in gran parte declinato in una lingua diversa dalla nostra, ma strettamente collegato a un linguaggio di guerra. Pensiamo a termini come “target”, quindi “bersaglio” , che definisce a chi ci stiamo rivolgendo, oppure a “shooting” – che letteralmente significa “sparatoria”, ma che in gergo si utilizza per definire un servizio fotografico.
Iabichino invita i professionisti della comunicazione in sala a riflettere attentamente sulle parole che utilizzano per definire il proprio lavoro:
“Se quando pensiamo ai nostri clienti li identifichiamo non come “target”, quindi come bersagli da colpire, ma li immaginiamo come un “pubblico”, e quindi come insieme di persone, il nostro atteggiamento progettuale cambia. Se parliamo a un pubblico, stiamo cercando consenso, un applauso, quindi è sulla nostra reputazione che andiamo a lavorare per ottenere un profitto”.
Durante il suo intervento ha anche toccato un altro tema caro, soprattutto a chi si occupa di social media: “Quello che conta è la bontà dell’idea, non il canale. Si va in rete per dare contenuti alle persone, non si aprono canali social perché non si hanno i soldi per fare pubblicità in TV”.
Photo Credit: Fabiola Fenili