Dopo la ritirata delle truppe americane, Kabul è ufficialmente caduta sotto il controllo dei talebani intenzionati a restaurare l’Emirato islamico di 20 anni fa, abbattuto dall’intervento occidentale. Le immagini di conquista della capitale hanno fatto, dallo scorso agosto in poi e in poche ore, il giro del mondo – mostrando un clima di terrore che ha spinto migliaia di civili afghani alla fuga. Negli ultimi vent’anni, nonostante tutte le difficoltà, le donne afghane hanno fatto notevoli progressi e sono state molto attive in tutti gli ambiti della vita sociale. Con l’avvento dei talebani, l’epoca delle opportunità sembra chiudersi per lasciare il posto ad un’epoca di desolazione. In questo lungo periodo, le donne afghane erano riuscite a vedersi riconoscere diritti quali quello, ad esempio, di essere affermate imprenditrici; erano riuscite a dirigere radio locali volti ad informare ed educare le donne. Oggi le donne possono andare in un posto solo se accompagnate dal Muharram (membro maschio della famiglia); la loro dote ha un listino prezzi, il sistema scolastico per loro è notevolmente cambiato e anche le impiegate statali sono in attesa di comprendere se potranno o meno continuare a svolgere il loro lavoro.
Per fronteggiare e difendere i diritti delle donne afghane, si sono diffuse tutta una serie di campagne di sensibilizzazione e raccolte fondi che potessero far fronte all’emergenza umanitaria in corso. Le onlus e le associazioni no profit, che si sono mobilitate nelle ultime settimane con appelli e raccolte fondi, cercano di tenere i contatti con chi è rimasto a Kabul ed è ora costretto a nascondersi mentre proseguono i rastrellamenti casa per casa da parte degli estremisti. Le donne afghane, che hanno peraltro contribuito nell’ultimo ventennio al benessere della comunità e alla ripresa economica del Paese, sono quelle maggiormente colpite dalle restrizioni dell’estremismo talebano e dall’applicazione della legge coranica con il conseguente timore di veder sparire nel nulla diritti civili e politici oltre che libertà personali. Proprio su questo tema è intervenuta la fotoreporter e membro del “Coordinamento Italiano a Sostegno delle Donne Afghane – CISDA” Carla Dazzi, la quale dal 2001 si impegna in Medio Oriente su progetti di sostegno alla povertà dei territori locali, ai percorsi formativi e di sensibilizzazione. Con la fotografia ha documentato luoghi, persone, condizioni sociali e testimoniato di un paese che stava cambiando volto e che, nonostante fosse devastato dai conflitti, non si era arreso davanti alla prospettiva di una ricostruzione anche molto lenta. Carla Dazzi ha messo in piedi una serie di progetti che potessero aiutare le donne ad elevare i propri diritti ogni giorno che passava; tramite le sue fotografie mostra ancora la speranza dei tempi andati e, seppur lontani, evidenzia il messaggio di donne che non vogliono e non devono arrendersi.
Molto diffusa sul web, e sul social Instagram, l’opera dell’artista yemenita Boushra Almutawakel “Mother, Daughter, Doll” – SerieHijab 2010. Boushra è nata nello Yemen e con questa e altre immagini cerca di raccontare i tentativi di cancellazione delle donne in alcune parti del mondo. Cerca di sottolineare quanto le donne facciano paura in alcuni scenari politici. Quando un contesto religioso non è solo patriarcale e bigotto ma evidenzia un estremismo terrificante, le donne non dicono solo di aver paura di perdere vita e dignità ma hanno soprattutto paura di essere cancellate dal mondo e dalla storia. Con questa immagine moltissime onlus e associazioni, quali ad esempio Pangea Onlus, hanno fatto da scudo per evidenziare la necessità che la parte di mondo privilegiato crei corridoi umanitari e faccia tutto quello che sia possibile e in suo potere.
Come Boushra, altre artiste e fotografe afghane sensibilizzano il mondo dagli accadimenti della presa di Kabul. «Questi giorni sono molto duri. Mi sento molto vicina alla morte. Ogni giorno è come fosse l’ultimo. Potranno uccidermi o rimuovermi, il mio corpo fisico, ma non potranno mai uccidere il mio spirito. Non potranno rimuovere o cancellare i miei pensieri. I miei pensieri passeranno alla prossima generazione con o senza di me. E io non li perdonerò mai», solo le parole di Rada Akbar, artista e fotografa afghana di 33 anni. Le voci e le storie di chi in questi anni ha sostenuto la causa femminile restano un esempio per molti; così quelle di Farzana Parween Wahidy, internazionalmente famosa, nata a Kandahar nel 1984 e adolescente quando i talebani presero il potere: frequentò la scuola segretamente nascondendo i libri sotto il burka. Nel 2004 fu la prima fotogiornalista afgana a lavorare con un’agenzia internazionale e oggi si batte per i diritti delle donne: «Scatto foto per esprimere i miei sentimenti di donna e attraverso le mie foto alzare la voce delle donne afghane da un mondo dominato dagli uomini».
E ancora Fatimah Hossaini, fotografa afghana-iraniana che racconta con bellezza, sensualità e colori storie di identità e femminilità in Afghanistan. Ha fondato e sostiene Mastooraat, associazione che promuove l’espressione artistica. Le parole del popolo afghano che abbiamo sentito o letto in questi giorni sono le più coraggiose e confermano il senso del messaggio di queste e altre donne afghane: sono una testimonianza, restano nel patrimonio condiviso del popolo afghano e di chi verrà. Quello che c’è stato in questi 20 anni, tra il primo governo talebano e il loro ritorno, la libertà che ha permesso di indirizzare i propri sogni al futuro, di creare opere d’arte, di fondare una nuova identità al femminile, non sono passate invano, anche se vivono oggi il momento più duro. L’educazione, l’arte, la libertà femminile sono quanto mai minacciate dal ritorno al potere talebano, le donne a Kabul vivono nascoste, aspettando il peggio.