Per il vocabolario Treccani è “autoritratto fotografico generalmente fatto con uno smartphone o una webcam e poi condiviso nei siti di relazione sociale”. Per noi tutti, membri di comunità virtuali, semplicemente “selfie”. Da quando nel 2013 l’Oxford English Dictionary l’ha eletto “parola dell’anno” e subito dopo lo Zingarelli ne ha sancito l’ingresso nel dizionario della lingua italiana, il neologismo si è svincolato dalla sua etimologia per emergere come strumento di una tendenza social(e) e affermarsi nel repertorio comunicativo digitale.
Attraverso le moderne tecnologie, il proto-selfie artistico – l’autoritratto di tele e pellicole – è approdato nel mondo comune e ne ha cambiato la prospettiva, filtrata da un display che cattura e condivide online quello che riflette. Instagram – prima ancora di video, direct, storie, reel, live – è stato il palcoscenico privilegiato della popolarità visiva del selfie. Celebrato poi con l’intitolazione di una giornata mondiale, da festeggiare il 21 luglio, e con musei dedicati.
Dopo Los Angeles, Dubai e Miami, anche l’Italia avrà presto il suo primo Museo del Selfie, novità della prossima stagione di Zoomarine, il più grande parco marino nazionale, alle porte della capitale. Non è la prima volta che il selfie viene accolto in un museo dall’ingresso principale: nel 2013, con la mostra newyorkese “Art in Translation: Selfie, The 20/20 Experience”, patrocinata dal Museum of Modern Art; nel 2017 con la prima esposizione sulla storia dei selfie, “From Selfie to Self-Expression”, alla Saatchi Gallery di Londra.
Stavolta, però, non si tratta di una esibizione culturale, ma di un luogo creativo in divenire. 400 metri quadrati con 25 postazioni interattive, aperte e sanificate in ottica post-Covid, saranno lo scenario fotografico a disposizione del pubblico, libero di scattare i selfie più originali in un percorso ludico-didattico, ma soprattutto instagrammabile. La mobile photography sarà allora compagna fedele di chi deciderà di immortalarsi in un ambiente psichedelico, cadendo nel vuoto da un grattacielo, camminando a testa in giù sul soffitto di casa, nuotando in una vasca con 15 mila palline colorate o posando insieme a una simpatica versione della Gioconda, per essere co-protagonista di una surreale opera d’arte.
Nell’era in cui l’esistenza va dimostrata a colpi di click, essenziale non è più fotografare ma fotografarsi, non solo per il piacere di farlo ma per l’urgenza di instaurare una relazione virtuale con la condivisione social e il riscontro digitale di like, commenti e follower. Gli hashtag giusti possono fare la differenza e nel Museo del Selfie di Roma ci penserà uno speciale ambasciatore a suggerire ai visitatori quelli da usare (#zoomarineroma, #zmselfino, #zmselfiemuseo) per le foto da postare sui propri profili e su quello di Zoomarine. Il delfino Selfino sarà la guida esclusiva del cammino interattivo, in cui si potrà anche decidere di affidare la cura degli scatti a dei professionisti, prenotando uno shooting fotografico.
I veri selfie-addicted non si lasceranno sfuggire l’opportunità che il museo offre di apprendere la storia e la cultura di questo fenomeno contemporaneo che non conosce limiti anagrafici, geografici, di umanità o moralità. Tra gli oltre mille selfie al secondo che si scattano ogni giorno nel mondo – siglati dagli ormai vintage #Iwokeuplikethis e #duckface o dagli evergreen #photooftheday e #nofilter – oltre il puro narcisismo, ci sono infatti i cosiddetti “selfie dell’orrore”, sulla scena degli attentati terroristici e dei disastri naturalistici, ai funerali e accanto ai malati terminali. Novità degli ultimi mesi sono gli autoscatti di rito durante la somministrazione del vaccino anti Covid-19, tanto che in New Jersey è stato allestito un vero e proprio set, chiamato “selfie station”.
L’evoluzione presente è nota, ma chi immagina che il primo selfie della storia ha già spento le sue prime 100 candeline? Nel 1839, William Henry Fox Talbot profetizzò che “non saremo soddisfatti fino a quando non faremo di ogni uomo il ritrattista di se stesso”. Ironicamente, proprio nello stesso anno, Robert Cornelius, chimico di Philadelphia, scattò quello che è probabilmente il primo autoritratto fotografico conosciuto, realizzato rimanendo seduto davanti all’obiettivo di una fotocamera dagherrotipica, coperto dopo un minuto di esposizione. Ma il vero anno di svolta è il 1920, quando sulla terrazza del Marceau Studio sulla Fifth Avenue a New York, Joseph Byron, fondatore della Byron Company (all’epoca uno dei più prestigiosi studi fotografici della città), regge insieme a Ben Falk una pesante macchina fotografica, mentre al centro altri tre baffuti fotografi sorridono. Nasce così il primo vero selfie (di gruppo), conservato oggi nella collezione digitale del Museum of the City of New York.
Robert Cornelius Joseph Byron, Pirie MacDonald, Colonel Marceau, Pop Core e Ben Falk
Non sarà difficile lasciarsi intrattenere da curiosità come queste, con cui il Museo del Selfie promette di stimolare i suoi visitatori. Magari per qualche ora, potremo anche lasciare da parte le implicazioni sociologiche, la desiderabilità sociale che, come ci ricorda Herbert Marcuse, ci impone di agire con “razionalità tecnologica” per plasmare al meglio la nostra personalità online e l’impatto della sovraesposizione social che ci espone al rischio di quella che Ferdinando Scianna chiama “sindrome dello specchio vuoto”, la solitudine narcisistica che nella nostra immagine riflessa manifesta solo angoscia e mai appagamento. Dove ci condurrà questa condivisione ossessiva di un’identità esasperata non lo sappiamo ancora, per ora la via più raccomandabile sembra essere quella che porta al museo.