La fotografia a portata di mano

Chiunque ha l’opportunità di fermare l’attimo racchiudendolo nel suo smartphone e da qui riaprirlo alla possibilità di essere condiviso con una serie infinita di persone nel mondo.  Omologazione? Arte? Trend? Nuova forma di espressione? Il concetto è mobile. Come il mezzo. Come i media. Come l’epoca in cui le immagini viaggiano veloci, espressione della mobile photography.

(Avvertenza: nell’epoca della brevità e delle presunte certezze, questa riflessione personale si pone nell’esatto opposto, non senza un pizzico di ironia).

La foto di gruppo o quella tra pochi e selezionati intimi per suggellare momenti, ricordi, rimorsi e the best of. Quella di spalle, davanti a un’opera d’arte in un museo o affacciati su di un magnifico panorama molto, ma molto fotogenico (e magari scelto come meta da visitare proprio per questo). 

Lo scatto al tramonto, quello alle nuvole, quello al cielo dal basso verso l’alto, magari realizzato posizionandosi in maniera perfettamente simmetrica al centro di un cortile con le ali del palazzo chiuse in un abbraccio (se ci passasse un aereo – anche in maniera posticcia, diciamolo – a completare, l’immagine risulterebbe davvero il top). 

Quello ai piedi immersi in acque cristalline o alle cosce vista spiaggia; il beautiful landscape sui monti o in posa sulla balla di fieno che, perdindirindina, quanta fatica costa scalarla e quanta pazienza ci vuole per resistere al pizzicore degli aghetti di fieno che si conficcano naturalmente nelle carni mentre l’espressione deve mantenersi sorridente, sognante o immersa in chissà quale poetica riflessione della mente (ma tutto questo che si taccia davanti alla camera, per cortesia). 

Quello into the wild tra i boschi o la lavanda o i girasoli o i rossi papaveri che segnano il ritmo delle stagioni segnato da movenze del tutto (finto-)casuali e da allergici starnuti trattenuti. 

E ancora: quello alle lucine da esterno nei locali trendy che fanno molto atmosfera “sera d’estate sulla baia” (i Millennial penseranno a Dawson’s Creek, ma anche The O.C. era tanta roba). 

Quello succulento prima al primo, poi al secondo e a tutta la carrellata di leccornie che terminano in un dolce finale per raccontare a una schiera di affamati curiosi l’intero menù ordinato per gustarsi un momento che (da leggersi tutto di un fiato) molto spesso sia il benservito utile a suscitare l’acquolina in bocca anche all’ex che sul tavolino ci vede due coperti invece che uno solo. 

E poi: c’è quello mentre si passeggia per strada, quello che coglie il riflesso in una vetrina, quello al soffitto affrescato o dipinto, quello al libro appena letto attorniato da un pot-pourri di fiori secchi, pizzi, merletti, nastri e lenzuola spiegazzate; quello all’outfit of the day; quello al caffè, quello che “è per lavoro” o quello corredato da una frase poetica (quasi sempre di Bukowsky o, per i più giovani, di Gio Evan) a completare un riquadro che il 99,9% delle volte vuole esprimere attraverso la tecnica del “dico-non dico” un messaggio criptato che colgono tutti fuorché il diretto o la diretta interessato/a. 

E in ultimo: l’immancabile, l’intramontabile e indiscutibile selfie, capace di dare il via a un interminabile srotolarsi di complimenti e romantiche emoji nel commenti (quando va bene che si mantengano sobri) per far salire l’autostima alle stelle. A pensare che c’è chi con l’autoscatto ci ha costruito carriere e chi invece li centellina perché, anche ogni tanto, la faccia ce la devi pur mettere. Lo dicono i guru della comunicazione. E se lo dicono loro… 

(Cosa? C’è qualcuno che non non si sente macchiato del peccato originale di esserci cascato almeno una volta nel mentre della propria second social life? Davvero? Sicuro, sicuro? Ok: proviamo a scorrere a ritroso tutta la nostra gallery Instagram, ritornando ai primi scatti pubblicati. E poi vediamo se si è pronti davvero a scagliare la prima pietra!). 

Riferendoci al mondo Instagram, tra il serio e il faceto (precisiamolo dovessimo provocare l’indignazione di qualcuno), quella stilata poco prima in maniera molto incompleta è una piccola parte di una lunga serie di luoghi comuni fotografici che scorrono nei nostri feed. Immagini e immagini scattate e condivise e che vanno a ingigantire quell’immensa mediateca virtuale (oggi incrementata da stories, reel, guide e contenuti video), creata in prima istanza per custodire il cogliere l’attimo tra intenzione e casualità, ma che al momento si è immersa a pieni pixel nell’epoca della supremazia del mobile, del veloce, dell’iper-connessione e della stra-connettività. 

Quella che stiamo vivendo, infatti, è l’era del digitale dove tutto è smart: phone, photo, working, things. E tutto quello che è stato fin qui elencato è quasi sempre prodotto generato con uno smartphone, piccolo e diabolico aggeggio che ha letteralmente e praticamente trasformato le nostre vite e anche il concetto stesso di fotografia che da arte che fissa l’istante in un certo qual modo si è trasformata in media che muove le informazioni veloci. 

La domanda, allora, sopraggiunge spontanea: ogni immagine prodotta (e che diventa prodotto) può essere classificata come mobile photography? E cosa indica e definisce, davvero, questo concetto?

Se prendiamo in considerazione Instagram, quale piattaforma simbolo del fenomeno delle immagini create con un telefonino e condivise con il mondo, è possibile affermare che questo è sempre stato (tutto sommato) un social molto democratico (salvo chiare e lecite restrizioni indicate nella sua policy). Nel corso della sua ancora giovine esistenza ha, infatti, permesso a chiunque di condividere attimi e momenti della propria vita, tra meraviglia, scoperta e sì, anche indignazione. 

Assecondando vicendevolmente l’algoritmo e la fame di consenso celata da finti chissenefrega dei cuori e dei follower, ogni iscritto si è costantemente esposto cercando di seguire ed eseguire le regole imposte dalle nuove forme di comunicazione digitale. Tutti, infatti, non solo sono fruitori del mezzo, ma anche creator esposti e sottoposti ai dettami dei formati più in voga, all’esigenza di affermare la propria presenza online, al desiderio di creare curiosità condividendo l’ultima esperienza per sentirsi ammirati, presi a modello, apprezzati e lusingati. E l’arma sfoderata per creare tutto questo tam tam in rapporto uno a community è lo smartphone, praticamente l’estensione delle nostre mani, la manifestazione dei nostri pensieri, la cornice che inquadra le nostre personalità, l’occhio vigile sul mondo, la gabbia dorata che spesso ci costringe a essere online anche quando siamo off. E sì: a volte anche a telefonare (lo permettono ancora, gli smartphone).

Negli ultimi tempi, e come si accennava più su, Instagram ha continuato a radicarsi nella società travolto da un mare di contenuti realizzati grazie alla messa a disposizione di formati e tool sempre nuovi che permettono alle voci di correre veloci. Ci si meraviglia, ci si indigna, si denuncia, si pubblicizza, si consiglia, si mette in evidenza, ci si espone, si divulga, ci e si racconta, si e ci si propone in talmente tanti modi diversi – ma soggetti a facile saturazione, ndr – da permettere di tracciare una linea del tempo su quanto e come la comunicazione uno a molti e molti a uno sia cambiata, si sia contaminata, si sia trasformata in qualcosa di molto diverso dagli albori.

Le buone memorie ricorderanno, forse, che le prime diatribe sulla funzione di Instagram (quando le immagini fotografiche erano ancora l’unico contenuto postabile) vertevano sull’eterna lotta tra fotografi professionisti e fotoamatori o raccoglitori seriali del momento (quelli della foto di rito con tutti i parenti a ogni compleanno, in pratica). 

Tra molti dei primi (e tra questi c’era chi, probabilmente, già era tanto riuscisse ad accettare di buon grado l’utilizzo di Flickr), aleggiava il dubbio e si poneva la questione della massificazione della fotografia, sempre meno soggetta al rispetto delle regole e della buona pratica quale conseguenza tangibile di un egregio approccio teorico. 

Tra i restanti, invece, c’era chi ci vide l’opportunità di un portfolio gratuito e semplice da utilizzare e chi cominciava a postare scatti così, per divertimento e provando l’ebrezza dell’editing, dei filtri, dell’apprezzamento di chi li intercettava. Tutto condito dall’immediatezza delle infinite potenzialità di arrivare a moltissimi. E mentre questo accadeva tra il piacere dello scatto condiviso con tutti e la scoperta di un certo talento nel cogliere il momento, nel mondo si abbozzava timidamente una nuova definizione che inquadrasse il fenomeno della fotografia a portata della mano di tutti. Si cominciava, insomma, a far accenno alla mobile (o smartphone) photography. 

“Con mobile photography si intende quel tipo di fotografia che è scattata utilizzando device di comunicazione mobile come smartphone e tablet. Il progresso esponenziale di queste tipologie di device ha messo gli utenti in grado di disporre di fotocamere (almeno in alcuni casi) anche qualitativamente eccellenti, con il vantaggio intrinseco della ubiquità e della portatilità.” (fonte: Medium Italia)

Una nuova disciplina? Una moda? Una moderna espressione creativa? Un sintomo o un simbolo di modernità? Un’evoluzione artistica e digital-pop di un’arte, quella fotografica (e video, anche) prima convenzionalmente riservata a pochi? Ancora oggi l’argomento è molto dibattuto tra chi ne apprezza le potenzialità creative e chi invece la ridimensiona a puro esercizio di stile per bravi dilettanti.

Quello che oggi è forse definibile, è quello che tutti i giorni vediamo: il pullulare di creatori di contenuti che hanno il desiderio di raccontare qualcosa e che con questo qualcosa hanno contribuito alla nascita di nuove figure professionali o al ridefinirsi di nuove forme di comunicazione. A volte va bene, altre volte i risultati possono essere un po’ too much, ma dall’advertising all’entertainment, lo scorrere senza sosta di immagini, la corsa al contenuto instagrammabile, la voglia di omologarsi o di distinguersi cogliendo il dettaglio che faccia la differenza fa sì che, nell’epoca della mercificazione e standardizzazione delle immagini che è possibile facilmente immortalare grazie a smartphone sempre più ultra prestanti, vi è ancora la richiesta latente di guardare qualcosa di sempre diverso, che ci emozioni, che smuova il sentimento e non si estrapoli solo dal sentiment, che salti all’occhio per ipnotizzarci, immedesimarci, portarci altrove fisicamente e mentalmente. Che ci piaccia, ci meravigli, ci provochi, ci sorprenda per bellezza e innovazione. Che renda unica e sempre diversa la visione del mondo che ci circonda confermando che, in pratica, anche se la nostra esistenza si è resa pregna dei passi avanti compiuti dal digitale in fatto di comunicazione, espressione, mezzi e media, la “necessità di continuare a guardare alla fotografia come una forma espressiva originale che sappia andare oltre le immagini-fotocopia di Instagram” è quello che va ancora premiato. 

E le immagini finaliste del Mobile Photography Awards 2021, uno dei concorsi più importanti nell’ambito di questo nuovo modo di immortalare l’esistenza, dimostrano che oltre ai contenuti effimeri la fotografia, intesa come azione atta al fissare con occhi attenti l’intimità di un attimo colto dalla propria prospettiva, è ancora possibile. Nonostante questo mondo veloce e fuggevole. Nonostante l’ineluttabile evolversi verso il transitorio.

(Tutte le foto-pubblicazioni raccolte da Instagram e inserite in quest’articolo, sono le mie. Che non si dica che non abbia provato quanto scritto in elenco!)

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