Le metamorfosi sgranate di Cindy Sherman: arazzi sperimentali con la trama di Instagram

Quando Cindy Sherman rese pubblico il suo profilo Instagram (dal nome inizialmente dedicato all’amato pappagallo – misterfriedas_mom – come avrebbe fatto una persona qualunque), W Magazine lo presentò come “la migliore mostra del 2017”. Congiuntura artistica ha voluto che, qualche anno dopo, il suo feed social si materializzasse in una galleria d’arte: la Sprüth Magers di Los Angeles, che fino al prossimo 8 maggio ospiterà le sue prime opere non fotografiche in oltre 40 anni di carriera.

Undici autoritratti, creati intrecciando fibre di cotone, lana, acrilico e poliestere, per dare vita ai volti delle immagini originali – scattate con cellulare o iPad e manipolate con app come Facetune e Perfect365 – sono l’espressione del connubio tra artigianalità rituale e tecnologie digitali. Nella serie intitolata “Tapestries”, foto a bassa risoluzione diventano arazzi su larga scala, prodotti secondo la secolare tradizione tessile del Belgio, della regione delle Fiandre. Alla qualità tattile dei manufatti si aggiunge quella visiva di saper tradurre l’immagine fotografica in texture tridimensionale, con “una sorta di pixelaggio d’altri tempi”, come dice la stessa Sherman.

Photo credit: spruethmagers.com

Il primo esperimento risale a circa 12 anni fa quando l’artista, nata nel 1954 a Glen Ridge, nel New Jersey, provò a realizzare dei campioni con il supporto di un’azienda californiana. Nonostante la buona qualità del tentativo, la trama del tessuto non riusciva a evidenziare i dettagli della figura intera rappresentata. L’idea e il processo creativo si indirizzarono, allora, verso la riproduzione di un primo piano, un ritratto più stretto.

Prima dell’“atto di generosità” – così è stato definito dal New York Times – con cui Cindy ha aperto il suo account ai follower (attualmente 343 mila), il social era per lei, come per molti, un diario per immagini: foto di famiglia, di viaggi con scatti ordinari dall’oblò dell’aereo, di piatti di ristoranti rinomati come quello di Kill Bill o di eventi pubblici e mondani. Poi, con la didascalia “Selfie! No filter, hahaha”, la pioniera del selfie decide di inaugurare la sua sequenza di autoritratti e traslare su Instagram il lavoro sperimentale di metamorfosi concettuale che la caratterizza fin dagli esordi, sul finire degli anni ’70.

Un centinaio di selfie pubblicati, in cui la fotografa-pittrice, una delle più importanti artiste contemporanee viventi, appare deformata nei tratti somatici, nel colore degli occhi e della pelle, nella capigliatura. Si mostra alterata nello sguardo e, a volte, perfino nel genere, con accessori e ambientazioni che ricalcano l’immaginario a cui si ispira. Tra i ritratti del progetto espositivo, troviamo un ragazzo dalla barba e dai capelli biondi su uno sfondo dal cielo amaranto e un fiume che scorre tra le montagne; c’è poi una donna dalla capigliatura candida, come i fiocchi di neve sugli alberi che la circondano e che sembrano caderle addosso a decorare il suo indumento; un personaggio eccentrico dalla pelle e dai boccoli viola, invece, con un trucco appariscente, è in posa in un’atmosfera iridescente.

Sto cercando di cancellarmi più che identificarmi – ha dichiarato Cindy Sherman – “Questo è un grande fraintendimento che nasce nel pubblico quando guarda il mio lavoro: gli spettatori pensano che io stia cercando di rivelare le mie fantasie segrete o cose del genere. Ma non è così. Al contrario, si tratta di cancellare la mia soggettività all’interno di questi personaggi. Personaggi che l’artista americana compone come pezzi di puzzle, per renderli protagonisti di un’identità che rifletta l’unica estetica per lei possibile: quella che rifiuta la bellezza tradizionale, con un’aria di ironica inquietudine.

Il suo studio di Hudson Square, a New York, negli anni l’ha vista rivoluzionare gli stereotipi, in un intenso lavoro di investigazione fotografica, attenzionando ogni minimo dettaglio – da staged photographer qual è – dall’ideazione della storia da mettere in scena all’organizzazione del set. “Le mie prime opere ispirate ai film noir e tutto quanto ho creato da allora ha lo scopo di mettere in discussione quelle che sono le aspettative poste su di me dalla società”, ha affermato Sherman. Infatti, dalla famosa serie a cui fa riferimento, “Untitled Film Stills” – 70 scatti in bianco e nero, realizzati tra il 1977 e il 1980 – non ha fatto altro che mirare a una rideterminazione semantica della rappresentazione di se stessa in quanto donna. Attraverso un abile photoediting, ha scardinato il processo con cui la società e i media riducono la donna a immagine.

Photo credit: artribune.com

Il progetto in mostra in questi giorni, conferma l’entusiastico consenso già ottenuto con le grandi retrospettive che, dal 2019 in poi, le sono state dedicate alla National Portrait Gallery di Londra e alla Fondazione Louis Vuitton di Parigi. Autrice di una delle fotografie più pagate di sempre, “Untitled #96”, battuta all’asta da Christie’s nel 2011 per 3.890.500 dollari, e tra le 100 persone più influenti al mondo nella classifica stilata dal Time qualche anno fa, è riuscita a stupirci ancora una volta con questa applicazione museale del suo artistico camaleontismo. Cosa ci riserverà nel prossimo futuro? Le idee sono in fermento, perché giocare con i filtri “è stato divertente, ma credo di aver esaurito il loro potenziale”. 

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