Crisi in Ucraina. Narrative di guerra sulle stories di Instagram

Il ritorno della storia

Nella notte del 24 febbraio 2022, alle 4 del mattino italiane, Vladimir Putin ha lanciato un attacco all’Ucraina sotto il nome fuorviante di “Operazione Militare Speciale”. Un’invasione in piena regola, condotta per via aerea, marina e terrestre, con l’obiettivo – secondo il capo di Stato della Federazione Russa – di “demilitarizzare” e “denazificare” l’Ucraina.

L’affacciarsi della guerra su una scala così ampia, con il coinvolgimento di uno degli eserciti più potenti del mondo, è stato un evento salutato con vero sgomento dagli europei. Non è più un conflitto asimmetrico condotto soltanto via aria e su una porzione di territorio relativamente piccola, stile guerra in Kosovo, coinvolge, invece, uno degli Stati più estesi della carta geografica del Vecchio Continente, l’Ucraina, con una concentrazione di mezzi e uomini che sul suolo europeo non si vedeva dalla fine della Seconda guerra mondiale. La novità dirompente è che l’orrore della guerra si è dispiegato ai nostri occhi in real time dai social.

Sugli scenari bellici “in diretta” noi occidentali abbiamo fatto il battesimo del fuoco con la Guerra del Golfo nel 1990-91, un vero e proprio spartiacque nella storia dei media, poiché fu il primo conflitto moderno ad essere seguito in diretta tv.

Con l’invasione dell’Ucraina si è fatto un salto di qualità.

Per esempio il mattino del 24 febbraio ho appreso l’inizio delle ostilità da una storia di Instagram. Penso che per molti l’esperienza sia stata analoga: vedere “il ritorno della storia” (come titolava il Time) direttamente sul proprio smartphone, da un tweet di un amico, da una notifica Telegram, da una storia ricondivisa.

L’ingresso nella narrazione bellica dei social ha avuto l’effetto, in prima battuta, di moltiplicare all’ennesima potenza le fonti di informazione. Non ci sono più soltanto i canali di informazione ufficiali, magari delle grandi agenzie di stampa occidentali e russe oppure le fonti istituzionali, ma entrano anche una serie di voci che si trovano sul posto (e, a volte, fuori posto). Account Facebook, Instagram, Twitter, TikTok e canali Telegram entrano di peso nel racconto quotidiano delle città bombardate.

Quello che si riversa ogni giorno sui social è un fiume in piena di informazioni, documenti fotografici e video, su cui però c’è una scarsa selezione, un debunking insufficiente, nessuna verifica approfondita di veridicità. Questi documenti spesso finiscono per essere utilizzati dagli organi di stampa tradizionali, ma con la velocità tipica dei tempi di guerra, con un controllo delle fonti primarie abbastanza scadente. Senza neanche accorgercene siamo già finiti nella propaganda di guerra 3.0.

Mettetevi comodi, perché gli argomenti che toccheremo saranno tanti.

La guerra più prevedibile della storia recente

Per quanto la guerra ci abbia colti quasi di sorpresa, dopo mesi di estenuanti minacce, trattative, recriminazioni, date annunciate di invasioni, bisogna ammettere per onestà intellettuale che fosse il conflitto più prevedibile della storia recente. E non è una frase detta con il senno di poi: i segnali di una profonda instabilità nell’area erano noti anche ai lettori più distratti e distanti dalle riviste geopolitiche.

Le proteste russe sul progressivo allargamento della NATO non sono una novità nel dibattito delle relazioni internazionali, soprattutto da quando i rapporti tra l’Allenza Atlantica e l’Orso si deteriorarono nel 2007, dopo l’annuncio dell’installazione dei sistemi missilistici Patriot in Polonia e sistemi radar in Repubblica Ceca da parte degli USA.

Dovevano suonare come un avvertimento anche le parole di Putin alla Conferenza di Monaco del 2007:

«La Nato ha posto le sue forze avanzate al nostro confine, anche se noi non reagiamo affatto a queste azioni. (…) Noi abbiamo il diritto di chiedere: contro chi è diretta tale espansione? E che ne è stato delle assicurazioni dei nostri partner occidentali dopo la dissoluzione del Patto di Varsavia?»(Putin, 2007).

Completò l’opera la guerra condotta da Putin in Georgia del 2008, conclusasi in pochi giorni con la sottrazione del 20% del territorio georgiano, senza particolari sanzioni comminate ai russi. 

Arriviamo, infine, al colpo di stato di Euromaidan in Ucraina, iniziato con le proteste di fine novembre 2013, e conclusesi con i violenti scontri che portarono alla fuga del presidente filorusso Viktor Janukovyč. Dall’inizio del 2014 il nuovo governo filo-occidentale non fu riconosciuto dai cittadini della Crimea, in stragrande maggioranza russi, né dalla popolazione russa e filorussa delle regioni del Donbass.

Ciò ha portato, prima, alla secessione della Crimea (annessa poi alla Russia) e, successivamente, ad una guerra a bassa intensità (e assai feroce) in Donbass, dove si sono fronteggiati esercito regolare e milizie paramilitari ucraine contro le forze separatiste delle auto-proclamate repubbliche di Donetsk e Luhansk, sostenute anche da volontari esterni russi.

La guerra in Donbass, che formalmente ha avuto fine con gli accordi di Minsk del 2015, ha lasciato sul campo oltre 14.000 morti da ambo le parti, ma la verità è che il conflitto non è mai terminato, ha continuato a correre sottotraccia, con agguati e spedizioni punitive lungo il fronte di contatto del Donbass, e soprattutto con un taglio delle risorse pubbliche di Kiev, ai danni dei separatisti filorussi. Il rancore e il senso di vendetta sono montati in modo incalcolabile sino ai giorni nostri.

L’invasione in Ucraina odierna ha usato il pretesto della messa in sicurezza e del riconoscimento delle due piccole repubbliche da parte russa ma, come abbiamo visto, il disegno bellico di Putin potrebbe avere ben altra portata: spodestare da Kiev il presidente Zelensky e tutto il suo governo, facendo così tornare l’Ucraina al rango di stato satellite dell’impero russo attraverso un governo fantoccio: una soluzione non lontana dallo status della Bielorussia (Morini 2022; Kohut 2022). Oppure lasciare l’attuale governo, ma chiedere una neutralità futura del Paese e una parziale smilitarizzazione. In ogni caso l’esercito russo ha dovuto fare i conti con la fiera resistenza del popolo ucraino, capace di rallentarne l’avanzata soprattutto sulle sue città chiave (Kiev, Kharkiv, Mariupol, Odessa).

Le spiegazioni a questa guerra che in tanti hanno offerto negli ultimi giorni sui social spesso si chiudevano con frasi come “Putin è un pazzo”, “Putin è malato” o “Putin è il nuovo Hitler”. In realtà sono analisi superficiali, inadeguate a leggere la complessità del gioco che si sta giocando. Il presidente russo, in qualità di capo di Stato, ha compiuto un’azione estremamente razionale (per quanto rischiosa): liberarsi di un governo ostile vicino ai suoi confini e, soprattutto, minarne la sua integrità territoriale, per sottrarla definitivamente all’ingresso nella Nato. Di fatto, non si entra nell’Alleanza occidentale con controversie territoriali in pieno divenire.

Infine, l’Ucraina è stata sempre considerata dai russi alla stregua di un “giardino di casa”, storicamente legato al destino russo (Cella, 2021). Un tempo i russi chiamavano l’Ucraina “Russia minore” (per distinguerla dalla Russia Bianca, ovvero la Bielorussia) e rappresenta per loro la culla della Rus di Kiev, in pratica una Gerusalemme laica che non si può lasciare in mano ostile (Putin, 2021). Se entriamo in questa forma mentis, la “follia” di Putin ha un disegno piuttosto razionale e strategico, per quanto possa risultare inaccettabile.

Perché proprio adesso la guerra?

Putin ha settant’anni, sta vedendo come le nuove generazioni in Ucraina e Bielorussia (oltre che nella stessa Russia) sono sempre più influenzate dai modelli culturali occidentali, specialmente in termini di sistemi di governo di tipo democratico. Questo rappresenta una minaccia al tipo di potere autocratico ormai secolare in Russia e in alcune ex repubbliche socialiste, una minaccia ben più seria dei potenziali missili puntati da Kiev su Mosca. I valori delle società occidentali, per un conservatore di stampo imperialista come Putin, sono “l’Anti-Russia”. Il capo del Cremlino non poteva chiudere la sua esperienza politica con la “fuga” dell’Ucraina, in particolare se nei suoi sogni geopolitici c’è sempre stato il desiderio di recuperare almeno un po’ del terreno perso dell’antico colosso sovietico ante-1991.

Gli occidentali fanno fatica a ad entrare nella mentalità russa, in quel “sentire comune” diffuso nelle lande immense a cavallo tra gli Urali. Se l’avessimo fatto, avremmo saputo già 30 anni fa che lo shock della dissoluzione dell’URSS è stato vissuto alla pari di un furto, di un’umiliazione planetaria e che, una volta recuperata la solidità economica, l’Orso russo sarebbe tornato a mostrare gli artigli (Il silenzio di Puškin, 2022).

Il recupero della grandezza perduta, insieme alla sindrome dell’accerchiamento, hanno spinto oggi milioni di russi a dare una nuova linea di credito alla leadership ormai stanca e appannata di Putin, che sino all’autunno 2021 era tutt’altro che l’uomo forte che si dipinge in Europa (Russia al voto, 2021). La sua popolarità, e quella del suo partito Russia unita, erano in discesa soprattutto per la gestione Covid, l’aumento dell’età pensionabile e i problemi economici.

Quando l’Occidente ha manifestato i suoi segni di debolezza (USA in fuga dall’Afghanistan e in crisi di credibilità, Biden in difficoltà per le prossime elezioni di medio termine, economie europee spossate dal Covid e dilaniate da interessi contrastanti, Cina in ascesa con il suo impero logistico-commerciale) per Putin è arrivato il momento di regolare i conti con l’Ucraina che ormai si trascinano dal 2014.

Dalla virologia alla geopolitica è un attimo

Inutile girarci intorno: Instagram e i social in generale obbediscono a una sorta di grande, collettivo, agenda setting, che consiste nella selezione degli argomenti del giorno su cui dibattere ed avviene con una rapidità dirompente che coinvolge tutti. Poco importa se l’utente di questa o quella piattaforma sappia realmente qualcosa di quell’argomento. Bisogna farsi trovare pronti e schierati.

Il nuovo Dasein (l’Esserci di Heidegger) è oggi l’immersione quotidiana in un flusso comunicativo a cui prendere parte, un coinvolgimento narrativo in cui siamo chiamati a schierarci, pena: il Non-esserci. Ma questo non è un “Esserci-interrogativo”, quanto semmai un “Esserci-assertivo”. Mi spiego meglio: non ci si immerge nello svolgersi degli eventi con un approccio di tipo analitico-scientifico, piuttosto si affronta la complessità con tutto il proprio armamentario morale-ideologico. Ho già una verità, essa è dentro di me, devo quindi piegare la realtà affinché la mia verità non ne sia messa in discussione.

Facciamo degli esempi pratici, che magari conosciamo già bene. Prima di essere sedotti dalla geopolitica sui social, c’è stato il periodo in cui molti dei nostri contatti di Instagram o Facebook sono stati un po’ virologi. Pubblicavano spesso riflessioni sull’opportunità di questa o quella scelta, citavano studi su fenomeni avversi dei vaccini, parteggiavano per questo o quel virologo. Esisteva una polarizzazione ben precisa: c’era chi offriva fede cieca alla scienza e sembrava un megafono di Burioni, capace di arrivare a negare il pranzo di Natale al parente non vaccinato, e chi invece era pronto a contestare ogni singolo dato offerto dagli istituti sanitari, pronto a scoprire maligni complotti delle big pharma o a combattere la dittatura sanitaria. Nella terra di mezzo, poco o nulla. Si è creato così il noto fenomeno delle “echo-chambers”: ogni persona nel suo schieramento non tollerava voci discordi nella sua bolla: pena il defollow dell’amico o del conoscente insolente.

La narrativa di guerra oggi si è innestata su un corpo sociale già dilaniato dalle divisioni pro e contro green-pass. Non è difficile capire che su un tessuto ormai avvelenato da due anni di contrapposizioni irriducibili l’arrivo della guerra potesse generare altrettante fratture non negoziabili. C’è stata una sovrapposizione di contrapposizioni e di opposti polari, due tifoserie che non si parlano… al massimo s’insultano.

Da un lato abbiamo molti dei critici del green-pass che si ritrovano attratti da una narrativa un po’ più compiacente nei confronti di Putin, vuoi per simpatie politiche pregresse, vuoi perché gli americani hanno un po’ stancato, vuoi perché gli organi di informazione alternativi della galassia no-greenpass, in questi giorni, sembrano diventate agenzie di stampa del Cremlino. Dall’altro lato abbiamo molti degli alfieri della vaccinazione a tutti i costi che si sono schierati in un sostegno acritico della visione degli USA e dell’Europa nella crisi ucraina con tutte le loro variegate richieste, che vanno dall’invio di armi sino alla partecipazione diretta al conflitto.

Poi ci sono di mezzo i pacifisti, forse la scelta di campo più disgraziata. Sono bersagliati dalla stampa interventista italiana alla stregua di assedianti interni, di conniventi del regime di Putin, di subdoli nemici dell’Occidente. La colpa? Non voler inviare armi in Ucraina e cercare una soluzione esclusivamente negoziale.

La guerra corre sulle stories di Instagram

Dopo questa doverosa e ampia premessa, necessaria per comprendere il quadro storico in cui ci muoviamo e le forze in campo, adesso andiamo a toccare l’argomento che ci interessa davvero: il rapporto tra la narrazione del conflitto e Instagram.

Sin dai giorni che hanno preceduto l’invasione russa, non è stato un caso osservare che alcuni degli “attivisti performativi” più noti del panorama social hanno cominciato a switchare il loro piano editoriale sul tema “crisi in Ucraina”. Il fenomeno si è registrato sia su Facebook che su Instagram. C’è stato chi è passato dai diritti civili alla geopolitica (Avvocathy), chi invece dalla virologia alle relazioni internazionali (Emilio Mola, Fabrizio Del Prete, Saverio Tommasi, etc.).

Fin qui niente di strano, è la normalità cavalcare un trend topic. Il problema è che stavolta le avvisaglie di guerra sono piombate su questi opinion-maker come una sberla inattesa. Non hanno avuto il tempo di prepararsi materialmente con qualche lettura. La necessità era trovare un nuovo topic dopo la fine di Sanremo, ma il tempo era tiranno e l’algoritmo pure, e bisognava comunque pubblicare qualcosa.

Questa fretta di Esserci, di diventare una fonte media a conflitto incipiente, ha spinto taluni a creare su due piedi raffazzonate ricostruzioni della storia ucraina recente, a scrivere veri e propri strafalcioni, quando non addirittura meditate omissioni.

La narrativa portata avanti da questi “attivisti performativi” è spesso una visione morale della storia e degli eventi, una lettura emotiva, con il riconoscimento di un Bene assoluto e di un Male assoluto tra le forze in conflitto. Nessuna sfumatura, nessuno slancio analitico, nessun interesse a fornire strumenti di decostruzione. La verità è già dentro di noi e la selezione della narrazione deve aderire a questa visione. Quello che non aderisce, si omette.

Il caso più interessante è quello offerto da un account Instagram seguito da oltre 600.000 persone. È passato a piè pari dal commentare i dati pandemici a inserirsi nell’analisi storica un tanto al chilo: parallelismi storici tra Putin e Hitler, analogie tra una relazione di coppia tossica e il rapporto Russia-Ucraina (sic), etc.

Creare analisi così approssimative, soprattutto così divisive, favorisce il meccanismo degli algoritmi dei social. Più la si spara grossa, più si crea dibattito, più si dà visibilità al post e al suo creatore. Bisogna sempre aver chiaro che strutturalmente i social premiano il conflitto dialettico e Instagram – da tempo oramai – non è più il luogo delle foto dei tramonti e dei commenti “beautiful pic”. È diventata un’arena di primaria importanza nel dibattito dell’opinione pubblica, con numeri di views ben più importanti di Twitter, e un pubblico di millennials avido di posizionarsi nel mondo delle idee.

Pertanto, gli attivisti performativi entrano a pieno titolo in quella che si chiama “propaganda di guerra”, uno strumento al servizio della narrazione dell’Occidente buono, avamposto di tutte le qualità del vivere civile. Qualcosa che esisteva in forma consapevole già dai tempi della guerra franco-prussiana (dove, ad onor del vero, il pubblico alfabetizzato era scarso), ma che oggi, con la straordinaria pervasività dei social, ha effetti dirompenti.

La geopolitica, però, mal si sposa con la propaganda, anzi, ne è il granello di sabbia che inceppa il meccanismo retorico. Proprio perché studia le comunità umane nella loro relazione con lo spazio e nel perseguimento dei propri interessi, sa già che gli Stati, così come qualsiasi gruppo sociale, sono formati da individui e le persone, per loro natura, non hanno un’identità totalmente buona o totalmente cattiva, di conseguenza, è inutile pretendere che gli Stati o le alleanze abbiano caratteristiche etiche che non ci sogneremmo di aspettarci dalle singole persone.

Per questo motivo le analisi che la geopolitica propone sono molto laiche. Non si lasciano sedurre dalle tifoserie e non esprimono condanne morali, non fanno narrazioni emotive, semmai, si sforzano di capire le traiettorie degli Stati e dove queste traiettorie rischiano di diventare confliggenti, trovando magari elementi utili per intavolare trattative più che agevolare recriminazioni.

La corsa all’informazione

Nei primi giorni di conflitto si è osservata una generalizzata corsa ad informarsi, anche su Instagram, ripetendo un trend già osservato durante la pandemia (Stigliani, 2020). Questa guerra sbatteva in faccia agli europei questioni di cui non si erano praticamente mai occupati, non nella stampa generalista almeno: dalla guerra dimenticata in Donbass, all’evidenza che i paesi aderenti alla Nato erano diventati tanti, sino alle ammonizioni della Russia. Ma non si possono ingurgitare argomenti in sole 48 ore che, invece, richiedono anni di studio e continuo aggiornamento. Purtroppo, sui social funziona così. Orsù il tempo è poco, bisogna schierarsi.

Molto interessanti sono state le strategie offerte da nuove realtà editoriali che si sono affacciate da qualche tempo sui canali social, con particolari successi proprio su Instagram: Will Ita, Torcha, Factanza per citarne alcuni. Attraverso gli strumenti delle stories, dei post a carosello e delle dirette IG, hanno fornito il più delle volte un’informazione di buona fattura, offrendo approfondimenti con un taglio assai orientato ai giovani.

Questi profili, già seguitissimi, hanno fatto da contraltare alle derive emotivo-moralizzanti di Tosa, Tommasi e co., ma, maggiormente, hanno permesso al grande pubblico di entrare dentro aspetti più specialistici della narrazione bellica: il rapporto tra Cina e Russia, le sanzioni economiche, gli armamenti dei contendenti, il caro benzina, etc.

A questi si sono aggiunti i profili di alcuni giornalisti inviati di guerra, che, a loro volta, hanno contributo a dare un’informazione puntuale, non mancando di fornire reale voce ai protagonisti, cioè i civili coinvolti in questo massacro, spesso con lo strumento del podcast. Si sono distinti in particolare Valerio Nicolosi (presente a Kiev il giorno del primo bombardamento), Francesca Mannocchi e Vittorio Rangeloni (sul Donbass). Altre voci preziose sono quelle di Claudio Locatelli (solo da poco sbarcato su IG), dei foto-reporter Fabio Bucciarelli, Emilio Morenatti, Chris McGrath, Felipe Dana, Aris Messinis.

A queste fonti, si aggiungono gli analisti geopolitici veri e propri: il più noto al momento su Instagram è Dario Fabbri, direttore del nuovo mensile di geopolitica “Scenari” (in uscita con il quotidiano “Domani”), spesso ospite di Enrico Mentana, e il giornalista de “Il Manifesto”, nonché esperto di relazioni con la Cina, Simone Pieranni. Segnalo, infine, anche il professore dell’Università LUISS Alessandro Orsini, attivo solo su Facebook.

Tra i profili di divulgazione emerge anche il profilo IG della piattaforma news “Osservatorio Russia”, utile per districarsi tra le complicate trame politiche dell’ex URSS.

Conclusi questi elenchi di fonti con cui rimanere informati ed avere un’introduzione alla complessità degli scenari bellici, rimane da toccare un ultimo capitolo, meno ovvio di quanto si possa pensare: la propaganda di guerra.

Le regole dell’Info-War Club

“Talvolta può accadere che un giornalista riproduca, del tutto innocentemente, una voce diffusasi in un paese o in un determinato gruppo sociale […] Ma il più delle volte la falsa notizia di stampa è semplicemente un oggetto fabbricato; è abilmente forgiata per uno scopo preciso – per agire sull’opinione pubblica, per obbedire a una parola d’ordine – o semplicemente per infiorettare l’esposizione”.

Queste parole potrebbero essere state scritte ieri, invece sono tratte da “Riflessioni di uno storico sulle false notizie di guerra” (1921), un breve saggio dello storico francese Marc Bloch, testimone e studioso della Prima guerra mondiale. E sempre il buon Bloch definiva il conflitto “un grande esperimento sociale”.

Un poster di propaganda americano della prima guerra mondiale (Library of Congress, via Wikimedia Commons)

Chi è abituato a rimestare tra i documenti della stampa del primo conflitto mondiale (e non solo quella) sa bene quanto la narrazione giornalistica, in tempi di guerra, trascendesse ogni dovere di obiettività, di verifica della fonte, per diventare crudo strumento di orientamento emotivo dell’opinione pubblica.

La scelta e l’ordine delle notizie, i titoli, gli editoriali, la mancata verifica delle fonti, sono tutt’altro che casuali. Questo accade a maggior ragione in Italia, in cui la quasi totalità della stampa è in mano a grossi gruppi industriali che, come nel 15-18, possono avere anche il loro interesse nel tenere una linea più o meno interventista, nel dipingere il nemico come un mostro che non ha caratteristiche umane, nel preparare psicologicamente il Paese a un’entrata in guerra che nessuno vuole.

La guerra di trincea del 15-18, con le sue fake news inventate ad arte, cosa c’entra con la crisi in Ucraina? Vediamolo!

Al fronte dell’Isonzo, impantanati nel fango, le notizie erano poche e la noia tanta (Gadda, 2008). Quelle poche notizie che passavano erano soggette al controllo della censura, che agiva persino sulle corrispondenze private dei militari, non solo sugli ordini di campo.

L’unico elemento di collegamento tra le trincee erano i responsabili del vettovagliamento, in particolare delle cucine, che assieme ai viveri portavano oralmente notizie da una trincea all’altra. Una notizia viaggiava dentro uno scenario completamente frammentato con successive aggiunte o manipolazioni, sino a diventare qualcosa di completamente diverso dalla notizia originaria (Bloch, 2004). Questo meccanismo rafforzava le credenze originarie dei soldati, li galvanizzava se necessario. Sembra quasi la stessa dinamica delle echo-chambers dei social, di cui abbiamo accennato poc’anzi a proposito delle polarizzazioni d’opinione in tempo di pandemia.

In madrepatria arrivavano storie terribili: come quando sulla stampa inglese si diffuse la leggenda che i crudeli soldati tedeschi fabbricassero il sapone con i cadaveri dei nemici (Ponsonby, 1928). Una bufala di così ampio successo che si replicò pari pari anche durante la seconda guerra mondiale.

La propaganda della Grande Guerra si è nutrita di quei “fattoidi”, notizie mezze vere e mezze false, o completamente infondate, che venivano accuratamente riportate dalla stampa, per nutrire ancora di più la sbornia collettiva nazionalista e bellica.

La propaganda funzionò così bene, almeno in Italia, che da oltre un secolo ci raccontiamo la fandonia che la nostra fu una guerra difensiva contro l’Austria-Ungheria, quando ogni storico può tranquillamente confermare che l’Italia fece una guerra di aggressione contro l’Impero asburgico, con tanto di sovvertimento delle alleanze in campo.

Vi ricorda qualcosa la narrativa dei media russi che oggi presentano l’invasione di Putin come operazione militare difensiva? È la prima regola del info-war club: la guerra la cominciano sempre gli altri. La seconda regola è che la guerra nostra è quella giusta, mentre quella degli altri è un abominio. 

Ma l’info-war club ha anche tante altre regole. Come, per esempio, spararle più grosse possibile. Forse avete sentito raccontare la storia dell’isola dei Serpenti sul Mar Nero, dove secondo la propaganda ucraina (e quindi occidentale), i pochi valorosi soldati si sono difesi sino all’estremo sacrificio. I profili Instagram hanno diffuso questa storia con una viralità sconcertante. Poi, però, da successive verifiche, si è scoperto che si sono arresi tutti, erano vivi e non erano neanche pochi. Oppure l’attacco alla centrale nucleare di Zaporizhzhia, presentato in Occidente come un assalto con la finalità di far esplodere i reattori nucleari e, quindi, richiamare la NATO ad un intervento diretto nel conflitto, salvo poi verificare che fosse stato un incendio in una zona non vitale della centrale. Non ultimo il caso del teatro di Mariupol, fatto esplodere con all’interno 1300 persone, per fare relative aperture di prime pagine con frasi a effetto come “Teatro di sangue”. Un giorno dopo si è scoperto che c’era stato un solo ferito.

Volendo citare qualche elemento di propaganda russa, torniamo a Mariupol, con la notizia del bombardamento dell’ospedale, dove, secondo le fonti russe, si sarebbe organizzato un set cinematografico per incolpare i russi di un efferato crimine, usando come espediente la presenza sul posto di una nota influencer ucraina. Oppure la guerra di fake news sul presidente Zelensky scappato in Polonia, durante i primi giorni di guerra, mentre i soldati ucraini rimanevano a morire.

Poi c’è la guerra sui numeri delle perdite degli avversari, che devono essere descritti come enormi: “hanno più perdite della guerra in Cecenia”, dicono fonti ucraine a proposito dei russi, tuttavia in realtà i veri numeri non li conosce nessuno.

Fa parte anche delle regole dell’info-war club sbattere in prima pagina, come ha fatto “La Stampa”, o sulle stories dei canali Instagram delle testate, l’immagine di una bambina di dieci anni con il fucile e il lecca lecca, omettendo però che la foto fosse stata costruita dal padre della bimba qualche giorno prima del conflitto.

Questa è solo una parte della storia. L’info-war club non ammette narrazioni del nemico o dei suoi sodali in casa nostra, e qui intervengono i social con censure preventive della propaganda, ma solo per quella russa. Facebook, Google, Twitter, in quanto piattaforme private americane, sono entrate a gamba tesa nel conflitto, filtrando e bloccando agenzie media russe e account privati, e permettendo deroghe alla policy in tema di odio, contro i russi ovviamente.

L’ultima deriva della propaganda 3.0 sono le liste di proscrizione: il nemico o chi dubita della buona fede degli occidentali è da mettere all’indice. In questo senso buona parte della stampa italiana ha dato il peggio di sé, mettendo nelle stesse liste di nemici pubblici sia filo-putiniani d’antica data sia analisti o politici critici con l’invio delle armi. Un’università privata – la LUISS – ha diffidato un suo docente dall’esprimere le sue analisi geopolitiche in tv, in quanto critiche della condotta europea. Non ultimo, il tentativo di mettere l’embargo pure sulle letture di Dostoevskij all’Università Bicocca di Milano oppure chiedere una manifestazione pubblica di condanna a Putin a direttori d’orchestra.

La logica della guerra (e dei suoi giannizzeri) non ammette il confronto dialettico, al contrario, impone a tutti di arruolarsi dal lato giusto – cioè quello occidentale a detta degli occidentali – e chi non lo fa o tentenna, è un disertore, un rinnegato, un nemico, a cui sparare alle spalle o, in alternativa, da sbeffeggiare e deridere.

Lo scenario che ci troviamo di fronte è estremamente complicato: è una sorta di stato di emergenza in cui il concetto di “verità” è stato sospeso. Non solo perché è effettivamente complicato separare le notizie vere dalle fake news a causa della fog of war, ma perché l’intero clima mediatico e civile ostacola al massimo la formazione di analisi laiche, di un pensiero non-binario che sfugga alla dialettica amico-nemico.

In questo clima tanto avvelenato, il fact-checking da solo non basta. Mentre gridano i cannoni di guerra, servono tutti gli strumenti della psicologia sociale per rimanere lucidi e per aver chiaro quali dinamiche si stanno dispiegando in un campo e nell’altro.

La novità è che oggi, per la prima volta dopo il 1962, anno della crisi dei missili a Cuba, stiamo tornando a parlare di guerra nucleare. Tifare per il feroce imperialismo di Putin o per le nostre “guerre sante” occidentali non ci porterà lontano. Anzi, rischiamo di mettere il punto di fine alle nostre stories. E anche alla nostra storia.

Bibliografia minima

Bloch M., La guerra e le false notizie, Donzelli, Milano 2004.
Cella G., Storia e geopolitica della crisi ucraina dalla Rus’ di Kiev a oggi, Carocci, Milano 2021
Gadda C.E., Giornale di guerra e di prigionia, Garzanti, Milano 2008.
Il silenzio di Puškin, in “Limes”, La Russia cambia il mondo, 2/2022, pp. 7-32.
Kohut I., Per che cosa lottiamo noi ucraini, in “Limes”, La Russia cambia il mondo, 2/2022, pp. 58-62.
Morini M., Cosa vuole davvero Vladimir Putin, in “Scenari”, 1/2022, pp. V-VII.
Ponsonby A., Falsehood in War Time: Containing an Assortment of Lies Circulated Throughout the Nations During the Great War, Garland Publishing Company, London 1928.
Putin V., Speech and the Following Discussion at the Munich Conference on Security Policy, 10/2/2007
Putin V., Sull’unità storica di russi e ucraini, 2021
Russia al voto: Putin per sempre. O no?, in Ispionline, settembre 2021.
Stigliani E., I giovani? Si informano su Instagram, in Key4Biz, 19 giugno 2020


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