Il Festival di Sanremo è servito

Achille Lauro interpreta "La Libertà che guida il popolo", di Eugène Delacroix (1830, olio su tela). Ph dagli account social di @achilleidol

(Premessa: la situazione è tragica. Ogni giorno ci ritroviamo a fare il conto di chi non c’è più, di chi combatte nuovi virus e vecchie malattie; di chi tra un apri e chiudi abbassa la serranda per non rialzarla mai più. Ci ritroviamo a fare i conti con i cambi di colore, gli abbracci mancati, i baci tenuti, le carezze trattenute in tasca tra vecchie, mature, giovani o piccole – se non minuscole – braccia incrociate, ferme e in attesa che si ritorni a una normalità. In mezzo a tutto questo caos, però, quando ci si può concedere un momento di innocua e innocente frivolezza dobbiamo cogliere l’attimo come fosse una piccola dose di vaccino contro la tristezza. Ecco il perché di questo articolo che “gioca” con parole che richiamano situazioni e ruoli di alcuni tra i settori più in difficoltà. Ecco IL perché del titolo stesso. Ecco perché una delle più eticamente contestate edizioni del Festival di Sanremo non solo forse è stato giusto realizzarla, ma è servita a farci compagnia tra le quattro mura che ci custodiscono da più di un anno.)

Mi piace / non mi piace.
A caldo / a freddo.

Se questo mondo basato sul dualismo di ogni cosa potesse misurarsi solo attraverso questi semplici parametri quando discutiamo in modo critico delle cose dell’arte, della creatività e della comunicazione, forse riusciremmo finalmente a definire quel concetto astratto e irraggiungibile e tanto anelato chiamato “perfezione”. Dite che sia la ricetta giusta? E quanto pagheremmo per un servizio così?

Certo, lo sappiamo: non tutte le ciambelle riescono con il buco (o con il Bugo, se vogliamo rimanere in tema). Quindi, anche ora che per il terzo anno consecutivo ci ritroviamo qui riuniti intorno al tavolo del nostro blog pronti a celebrare (o esecrare) l’ennesima edizione del Festival della canzone italiana, dovremo accontentarci di gustare a posteriori quanto è accaduto durante la settimana dedicata alla musica più temuta e seguita dall’Italia intera (sì, anche da chi dice di non gradire la portata dell’evento).

Una kermesse artistica, Sanremo, che ancora una volta ha stuzzicato l’appetito degli italiani (buone forchette per antonomasia quando si tratta di cuocere a puntino un argomento), ingolosendoli fino a voler soddisfare il desiderio di ognuno a diventare opinionista e commentatore di un programma che il servizio pubblico ci offre ormai da ben settantuno edizioni. E che, pensate un po’, ha avuto l’ardire non solo di andare in onda durante la finale di Masterchef Italia, durante Propaganda Live e grandi classici del cinema, ma che si è confrontato, nonostante il ritardo di un mese circa rispetto alla sua storica messa in scena, con un palinsesto sulle altre reti che non ha rinunciato al voler essere competitivo.

Ad ogni modo, tra la sfilza di intolleranti e veri gourmet schieratasi a favore del buono e non buono di questo Festival, nel 2021 è facile rendersi conto di come il ricco menù di Sanremo si confermi quale piatto che non può essere assaporato fermandosi a un primo assaggio esclusivamente televisivo. Per attivare le papille del gusto che si prova a seguirlo e per godersi ogni ingrediente di questa ricetta , occorre necessariamente attivare tutti i sensi per una percezione multilivello e multi-canale della sua rappresentazione. Un po’ come fossimo dei sommelier.

Ma veniamo dunque a noi e al perché siamo qui ancora a ridiscutere di questo (mai sazi, mai pieni e mai satolli di curiosità).

Abbandonando la metafora culinaria, per leggere tra le righe di Sanremo possiamo a gran voce affermare che, come quasi tutta la programmazione televisiva non si ferma più alla mera messa in onda, anche il Festival si incrocia e incastra andando in scena su palchi e schermi diversi, da seguire in modo alternato e alternativo sia in TV che sui social network. Un legame indissolubile quello che si è creato tra “vecchi” e “nuovi” media, tra “reale” e “virtuale”, attraverso i quali si comunica, si lanciano provocazioni e si colgono occasioni che inducono lo spettatore a non fermarsi al primo acchito, ma a lasciarsi assorbire dal flusso d’immagini che si ha dell’altro da sé, tra swipe up, veloci scroll e skip per cogliere la story più interessante. E il nostro caro Instagram, che d’immagine se ne intende e ci campa, è stato ancora il protagonista indiscusso di quella rivoluzione comunicativa a cui ormai assistiamo quali creator attivi e passivi del nostro ascoltare e vivere il web.

Vero è, però, che spesso non passa una immediata comprensione del valore e della funzione delle piattaforme di social networking. Le stesse dove in tanti sfogano la propria frustrazione e dove il parere a volte si fa minaccia anche se consci della propria ignoranza, sono ancora poco considerate quali enciclopedia mediatica da sfogliare e sulla quale ricercare alla voce “messaggio” il significato di ciò che fruiamo altrove da essi.

Un esempio pratico? Le esibizioni di Achille Lauro, quest’anno eclettico ospite fisso che ha vestito i panni della rivoluzione sul palco dell’Ariston.

Forse un po’ troppo pretenziose se si dà per scontato che i telespettatori siano grandi esperti e appassionati delle letture incrociate, ogni sera il più discusso ha indossato un’idea e un genere musicale attraverso un’opera d’arte pittorica o fotografica rivista e reinterpretata fluidamente (e splendidamente) fino all’estremo della provocazione. Ha osato, posato, mostrato e cantato a parole sue un inno che riconferma la libertà di essere umani perfetti con le proprie imperfezioni, lasciandoci il sangue e donandoci amore, destando scalpore e suscitando stupore, nel mentre veniva incompreso da molti e nonostante le sue performance siano ormai figlie cresciute ed educate a suon di anteprima a cui abbiamo assistito durante la scorsa edizione.

A noi che ci siamo abituati a interpretarne gli indizi, anticiparne le mosse e a leggerne il mistero precipitandoci su Instagram appena intercettata una notizia ambigua o posato un piede in teatro, la messa in scena non è dispiaciuta, specie se a coronare la stravaganza è arrivato un nuovo album in uscita che ha usato Sanremo per farsi strada tra la curiosità, la voglia di averlo e un’altra buona lezione di strategico marketing.

Oltre a un plauso che ancora una volta rivolgiamo alla comunicazione digitale “istituzionale” (moderna, dinamica e molto auto ironica – o, se vogliamo, ai limiti dell’auto-meme), un po’ tutti gli artisti in gara si sono divertiti a renderci partecipi del dietro le quinte con contenuti extra davvero succulenti, mentre i momenti epici sono stati ripresi all’infinito da chiunque abbia voluto riproporceli e commentarli in chiave ironica – e anche dissacrante, diciamocelo (a Sapore di Male e a The Jackal affiderei personalmente se non la conduzione principale, almeno quella del dopo Festival).

Un Festival rivoluzionario nel suo presentarsi sempre uguale. Un Festival dove trionfa il “rock” (a parer mio, più estetico che suonato, ma son gusti) dei giovanissimi Måneskin; dove la denuncia e il richiamo a temi importanti si fa manifesto sottile ma evidente attraverso canzoni, esibizioni, vestizioni e dichiarazioni; dove i grandi big che hanno gareggiato fino all’altro ieri, oggi si ritrovano ospiti tra giovanissime proposte che forse sono nessuno agli occhi stanchi dei classici telespettatori, ma che sono una potenza di fuoco dai mila follower su Instagram e ascolti su Spotify.

Tra gli artisti è normale che c’è stato chi s’è mostrato più o meno social e Instagram addicted, ma lo storytelling non s’è fatto mancare nulla. Dall’amore disperatamente urlato da Aiello agli sguardi e le parole discrete ma potenti dei Coma_Cose, entrambi protagonisti in tono diverso delle stories soprattutto degli altri (e di chi s’è fatto infiammare il cuore e gli account da uno smanioso bisogno di sentimenti); a Madame che di potenza e grinta ne ha da vendere e da mostrare. Ogni giorno ci ha aperto la finestra sulla sua avventura, non mancando di anticipare, far trapelare e raccontare i particolari dei suoi outfit serali, abiti perfetti per vestire una Voce che vuole farsi sentire perché ha molto da dire e da comunicare. Senza escludere la mitica Orietta Berti, veterana pronta a combattere ancora anche imbracciando armi moderne, che tra live, stories, stikers a lei dedicati, “oriettate” e dettagli marini luccicosi e appariscenti, si è non solo concessa a favor di Instagram, ma quasi fatta portavoce di una sorta di rivoluzione a suo modo molto punk per dimostrarci che non di soli giovani influencer è fatto il mondo.

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Cinque serate, ventisei artisti (più 8 nuove proposte) in gara e una marea di giornalisti, manager, musicisti, dj, vj, fan, mogli e mariti pronti a riscrivere le nuove frontiere dello storytelling e anche della modalità con cui farsi supporter.

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Tanti VIP (ma non sarà un po’ vetusto il termine Very Important Person, ormai?) e tanti influencer si sono schierati nel #Team di questo e quello, sostituendo al codice sconto il codice n° TOT il per vota e fai votare. E tra questi, poteva mai mancare la nostra Chiara?

Sta facendo molto discutere, infatti, il suo “intervento” a mezzo Instagram a supporto del marito Fedez. Durante l’ultima folle serata (che su Instagram ne ha viste di ogni) ha chiamato a raccolta i suoi milioni di follower invitandoli a supportare la coppia Michielin-Fedez al televoto. Sarà giusto? Sarà sbagliato? Lo analizzeremo con il tempo. Ma di certo il Codacons non se l’è lasciato sfuggire (come tutto quello che i #Ferragnez combinano), proprio come noi non abbiamo tralasciato che la sua chiamata agli smartphone è stata la miccia per le storie, anzi, LA STORIA che da sola vale l’essersi sorbiti tutte le quasi 30 ore di Festival: l’avvincente ed esilarante appello di Colapesce & Dimartino alla qualunque (ma di un certo volume di seguaci) per conquistare quel pugno di voti in più. E qui lascio che le immagini parlino da sole.

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A questi ultimi sento di dover dire personalmente “grazie” in modo particolare. Non solo per averci regalato un pezzo che, con il suo ritmo vintage è espressione giocosa e melanconica del nostro tempo (a anche di quello che fu), ma sopratutto perché sono riusciti a regalarci una nuova percezione e interpretazione comune di un mondo (non per loro merito o demerito, ovviamente) di feci, un termine da considerare non solo come un modo elegante per richiamare il prodotto organico espletato e metaforicamente utilizzato per indicare qualcosa che davvero non ci piace, ma anche e soprattutto quale prima persona singolare passato remoto del verbo “fare”, quell’azione riferibile a qualsiasi cosa che non sia più avere solo paura del presente, terrore del passato e timore di un futuro di cui non vi è certezza.

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