Chi siamo, dove andiamo è cosa postiamo. La tendenza sembra questa. Ma quanto vale questo trend?
“Ho visto nelle tue stories che sei stato lì nell’ultimo weekend. Com’è?”
“Come si chiama quel ristorante che ha condiviso @tizio su Instagram?”
“C’è una mostra davvero instagrammabile in quel posto. Dobbiamo andarci, c’è stato anche @sempronio.”
C’è chi l’ha detto. E chi mente affermando il contrario.
Nel mondo sono rimaste pochissime anime pure a non possedere un account social o ad aver preso la meditata decisione di auto-escludersi dalla second life virtuale. Mantenere o decidere di fare un passo simile non è cosa semplice oggi. Restare disconnessi è, infatti, ancora possibile?
Il verbo transitivo connettere (dal latino connectĕre «congiungere, annodare») significa unire insieme, collegare, mettere in relazione due o più cose. Ma anche: essere in rapporto ideale, aver relazione o, con valore assoluto, ragionare.
Ragioniamo sulle varie declinazioni social di questo verbo.
Connessi agli altri.
Connessi al mondo che ci circonda.
Connessi a internet.
Applicazioni e software a parte (che agevolano e semplificano i processi quotidiani del fare), sui social (media di connessione e interconnessione per eccellenza) legami e rapporti ideali si creano, si plasmano, si amplificano, si targhettizzano, si etichettano. Attraverso l’evoluzione delle piattaforme di social networking si scopre il mondo (travel, art, culture…), si reperiscono informazioni (news e info), si può decidere di comprare (fashion, beauty, design, handmade…), si sceglie dove mangiare o cosa assaggiare (food), ma si dice anche la propria (opinion leader) o ci si propone nel fare qualcosa o l’essere qualcuno (personal branding). Si identificano tendenze. Si catalogano gusti. Si seguono trend. Si stabiliscono contatti e si assumono posizioni. Si offrono e colgono opportunità, insomma, assecondando quello che è considerabile come un radicale ed epocale cambiamento che riguarda tutti e tutti gli aspetti della vita.
Ogni esperienza, ogni pensiero, ogni traguardo, finanche il più piccolo dettaglio, è diventato meritevole di essere condiviso con i propri follower. Dal piccolo utente fino alla più grande celebrity: chiunque si pone nella posizione di comunicare uno a molti, facendo sì che il fare qualcosa rivolgendosi agli altri parlando attraverso il proprio smartphone sia ormai un aspetto comportamentale imprescindibile del presente (e dell’essere presenti). Dedicare spazio e tempo alla creazione di contenuti che raccontano una parte della propria esistenza è diventata una pratica di uso talmente comune che, pare, non se ne possa più far a meno.
Non sono solo i VIP o i brand o i grandi marchi ad aver cercato e acquisito visibilità sui social (tanto da spingere anche le piccole e medie realtà a cercare di affermare qui la propria presenza). Questo processo di connessione numeroinprogressione.0 riguarda anche il modo di reperire informazioni e di darle. Tutto passa dai social: dalle news lanciate dalle testate giornalistiche, alle informazioni sui più svariati argomenti condivise ogni giorno da account dedicati all’approfondimento; dal lancio di prodotti prusumer oriented e carichi di messaggi che oltrepassino il confine della mera e classica pubblicità, allo scoprire nuove tendenze, tutto filtra attraverso immagini, reel, video e caroselli che sfamano un desiderio di conoscenza e presenza sempre più famelico.
Quindi è mediatizzazione il termine che meglio definisce la trasformazione del percepire e del percepito in relazione ai nuovi media? Può essere. I social, oggi, condizionano i contesti sociali e viceversa. I nuovi media non possono più essere ritenuti un terreno neutrale. Influenzano il sistema di comunicazione e del vivere, lo rendono ibrido, co-evolvono insieme ai cambiamenti del modo di pensare, rompono gli schemi del mondo analogico fino ad ora conosciuto e lo travolgono, lo plasmano. Lo cambiano senza assecondarlo, ma lo assoggettano, a volte.

I nuovi media, oggi, sono canali utilizzati principalmente per comunicare, interagire, esplorare la propria identità e renderla partecipativa. Anche Instagram, banalmente considerato social per immagini, è nel pieno di questa trasformazione. Se prima si tendeva a desiderare di essere apprezzati per la propria capacità di saper cogliere momenti riproponendoli in modo esteticamente lodevole, oggi si vuol essere apprezzati per le proprie capacità intellettuali, dialettiche, di pensiero. Ci sono nuove forme di comunicazione interpersonali che portano ad esporsi, a dire la propria, a proporre la propria identità attraverso il ragionamento, le parole, l’opinione, la conoscenza specifica, la divulgazione. Ogni giorno c’è chi sale sul proprio pulpito digitale e ci dice la sua condividendo informazioni, conoscenza, virtù e sì, anche prediche. Tali nuove forme di comunicazione interpersonale apparentemente senza filtro (schermo dello smartphone a separare l’io dal voi a parte) stanno rendendo la fama e il successo più democratici, accessibili anche alla gente comune. I social media da rappresentativi sono diventati presentativi di un sé pubblico e privato che si celano e mostrano a seconda del creator. Questa democratizzazione e diversificazione del concetto di successo che trasforma il vicino di casa in personaggio pubblico è segno proprio del cambiamento culturale che ci sta travolgendo e che sta influenzando anche il modo di percepire la realtà, oggi più che mai plasmata dal modo di fare e di essere di tanti nuovi prescrittori di stili di vita e modi di pensarla diversamente.
Un vicendevole scambio tra dimensione analogica e digitale della semiotica visiva e culturale dell’oggi che influenza e influisce i radicali cambiamenti nel modo di porsi di tutti. È come se si fosse sempre nella posizione di dover dimostrare – e non solo mostrare – qualcosa a qualcuno. È come se ci siano delle aspettative sulla performance. È come se fossimo costretti a rispettare una tabella di marcia, una sorta di galateo digitale sul come, quando e quanto postare per non deludere chi ci aspetta dietro il vetro dello smartphone, salvo rimanere delusi nel momento in cui il nostro contenuto non rompe l’Instagram.

Non frequentare i social è percepito as usual come un restare tagliati fuori da un mondo. Che poi sia quello che realmente ci circonda o quello del trend di cui tutti parlano non fa differenza. Anche se consapevoli che la vita virtuale espressa su Instagram (social (a)estethic per definizione) equivale spesso a una mega filtro che spreme e semplifica quello che l’altro dietro lo schermo decide di mostrare, se non si posta, scrolla e skippa un senso di esclusione, inadeguatezza e privazione sopraggiunge desolante tanto quanto deprimente è la sensazione del guardare la gallery dell’altro e ritenerla sempre più interessante della nostra. Già qualche tempo fa (nel 2018 per la precisione) ci siamo permessi di azzardare una riflessione sull’uso o l’abuso di Instagram e dei social media in generale parlando di FOMO e ansia da prestazione.
Oggi che digitale e reale si confrontano e si confondono, il numero di follower e like equivale (e spesso confuso) con il successo, la notorietà, l’opportunità che polarizzano l’identità verso il sentirsi come costretti a non deludere o deluderci.
Qualcuno cantava “siamo l’esercito del selfie…”. Adesso, forse siamo invece diventati più mercenari della content creation. Ma valiamo davvero solo il numero di seguaci o di cuoricini che i nostri contenuti ricevono?
Ai post(eri) l’ardua sentenza.
Per approfondimenti:
Mediatización de las dinámicas culturales de las celebridades: el caso de Rosalía en Instagram (Bravo-Araujo, A., Serrano-Puche, J. y Codina-Blasco, M.). Revista de Comunicación, 2021, vol. 20, N° 2. E-ISSN: 2227-1465
(p.s.: ringrazio @deboradusina e l’autrice del libro Tutto per i bambini, Delphine de Vigan, per gli inconsapevoli assist)