Recentemente si è ritornato a discutere di Instagram e di come l’algoritmo prenda, diciamo, con leggerezza gli interessi degli utenti, indirizzando contenuti pubblicitari alle persone sbagliate. Un aspetto poco umano a livello tecnico, che però ci può portare a riflettere su come e quanto anche la società stia sensibilmente cambiando.
La bellezza.
Sin dall’antichità, questo concetto è stato tema di sofferenza e di conflitto.
Basti ricordare il mito di Adone, di Narciso o quello famoso del “pomo della discordia”. Tutti cause di lutti, problemi e addirittura guerre.
Prendiamo l’ultimo, per esempio. Nel mentre del banchetto nuziale, per festeggiare l’unione tra Peleo e Teti, la dea Eris, per vendicarsi d’esserne stata esclusa, lanciò una mela d’oro sul tavolo pronunciando una frase fatidica: “Alla più bella”. Le dee dell’Olimpo presenti (Era, regina degli dei; Afrodite, dea della bellezza e Atena, dea della saggezza) si dice che per accaparrarsela e, quindi, auto-proclamarsi più bella tra le belle non solo diedero vita a una rissa trasformando la festa in un ring, ma furono anche causa della Guerra di Troia. Già, perché Zeus, il supermega direttore galattico dell’Olimpo a quel tempo, se ne lavò le mani, chiamando in causa Paride, principe di Troia, molto abile e giusto nel giudizio che, tra una lusinga e una promessa fatta da ognuna delle dee coinvolte nel caso, scelse Afrodite e l’amore della donna più bella del mondo (Elena, la figlia del re di Sparta, ndr) come premio di consolazione per la sua ardua scelta. Sappiamo cosa successe. Quello che oggi può far porci ancora altre domande è il perché poi, a decidere, dovessero essere degli uomini. Ma va be’, è un’altra storia.
Ok. Forse ho parafrasato mischiando il mito a qualche immagine colorita di troppo rimasta nella memoria dall’infanzia e dal cartone animato Pollon (che di miti e vicende storiche greche ne ha insegnati parecchi), ma se una storia passa di bocca in bocca chissà: forse un fondo di verità ce l’ha davvero.
Quello che è certo, sicuro, matematico è che il concetto di bellezza da raggiungere, mostrare e a cui prostrarsi a tutti i costi non è una leggenda, anzi. E non riguarda solo le donne.
Nei secoli si è trasformato, si è tramandato, si è ridipinto e ridisegnato. Armoniosa e florida; pallida e gracile; eroica o simpatica; riconosciuta e riconoscibile a seconda del sentire del momento: la bellezza è tema che riguarda tutti. È mito che si ricerca. È concetto che si canonizza. Si è fatto detto e si è detto fatto, insomma. Ma non senza conseguenza anche devastanti.
E quella che in questo momento stiamo trattando non è certo la “bellezza” della virtute e canoscenza, quella intellettuale. No. È quella fisica, i cui standard lasciano fisicamente segni indelebili non solo sul corpo, ma anche nell’animo.
Da tanto, troppo tempo, infatti, l’aspetto fisico inorgoglisce o ferisce. Una pelle liscia e tonica; una linea di muscolo; uno stacco di coscia; l’altezza da cui guardare al mondo; un brufolo o un punto nero in più o in meno; un capello lucente, liscio, riccio o tinto, folto e mai rado; un rotolino di troppo; una culotte de cheval che non va via; una pancia non piatta; un fianco largo o stretto. Chi non si è mai sentito fuori luogo o fuori posto guardandosi allo specchio o riflettendosi nello sguardo degli altri? Chi non si è mai sentito poco adatto ad affrontare una qualsiasi situazione basandosi esclusivamente sul proprio aspetto fisico e sulla bellezza standardizzata? Quante dichiarazioni d’amore abbiamo taciuto; quanti abiti abbiamo lasciato appesi in negozio per paura che non ci stessero bene; quanti CV non abbiamo inviato o quanti posti di lavoro sono stati esclusi a chi, non rientrando in quello che chiamano “standard”, non è stato accettato per la sua intelligenza, il suo acume, le sue proprie capacità. Quante risatine, occhiatine, battutine per strada o tra le persone care. Quanti modi di dire e di fare abbiamo tutti subito grazie a quell’educazione “esteticocentrica” che ci ha insegnato a non piacerci mai perché – caspita! – anche l’occhio vuole la sua parte.
E quante vittime ci sono state, ci sono e ci saranno? Assai. Troppe. Già.

La bellezza, specie quella fisica che ci vuole ameni e filiformi – soprattutto filiformi – non è un tema fresco di giornata, è vero. Ma, diciamocelo, oggi la loro parte l’hanno fatta e la stanno facendo anche e sicuramente i social media.
D’immagine si sono sempre alimentate le immagini che le persone si sono costruite di se stesse, si sa. Ma ora che siamo in mezzo a una sovraesposizione mediatica che ci pone al centro dello sguardo del mondo, essere belli pare che sia un dovere. Altrimenti non si è nessuno. Altrimenti si è degli sfigati. Altrimenti si è fuori e se proprio al centro delle attenzioni, sicuramente quelle della burla che sfocia spesso nel bullismo.
Di un po’ tutti questi temi in generale ne abbiamo parlato in passato proprio su questo blog. Sia qui che qua. E sappiamo che non si chiude il cerchio con un paio di articoli e che non avremo sicuramente risolto il problema solo pronunciandolo o analizzandolo o scrivendo un po’ di considerazioni in merito.
Nel corso del tempo, però, guardandoci attorno ci siamo resi conto che il vaso di Pandora è stato scoperchiato anche grazie a chi si è impegnato drizzando le orecchie per intercettare meglio quel grido silenzioso che non sempre è stato facile cogliere. E che quelle voci troppo spesso silenti o poco ascoltate ora fanno rumore, molto rumore. Un rumore distinguibile, chiassoso e non (nella maggior parte dei casi) rissoso, ma capace di farsi sentire forte anche nel reale, non solo nel virtuale.
E anche Instagram se ne è accorto. E anche Instagram sta cercando di correggere il tiro.
Una piattaforma che ragiona sulla base del suo algoritmo e che oggi ci suggerisce quello che “ci piace” grazie ai nostri interessi espressi con cuoricini e hashtag, si è ritrovata a fare i conti ancora una volta con l’umanizzazione, le reazioni delle persone e le conseguenze sulla vita degli utenti. Ma, soprattutto, anche sull’influenza che è la base della sua essenza, da qualsiasi punto di vista la vogliamo guardare e considerare.
Negli ultimi mesi – ma in Italia è stato già riferito negli anni scorsi a suon di titoli sui giornali – Facebook Inc. si è resa conto di aver suggerito – su Instagram particolarmente – a persone affette da disturbi alimentari contenuti pubblicitari (promossi dalle aziende o dagli influencer chiamati in causa) riguardanti prodotti brucia grassi o dimagranti o utili a riprendere forma (che frase fatta assurda. Ma quale è, poi, la forma corretta da esibire?) o a scolpire corpi per renderli snelli, scultorei, piacevoli alla vista. Soppressori della fame; inviti al digiuno intermittente; formule magiche per far scomparire i chili in eccesso dati letteralmente in pasto anche a chi i pasti ha deciso di disordinarli con conseguenze importanti tra psiche e corpo.
Come si legge chiaramente negli articoli di Altroconsumo e la Repubblica e più recentemente anche sul Times, alle pubblicità ingannevoli la piattaforma ha risposto prima di tutto scusandosi, ma anche con blocchi e limitazioni una volta riconosciuta l’imperdonabile gaffe. Non solo: si è chiesta trasparenza e impegno affinché questo tipo di contenuto dapprima non raggiungesse i minorenni, poi chi il baratro l’ha conosciuto e lo conosce e poi anche un po’ tutti. Perché nessuno è immune alla lusinga del raggiungimento della bellezza scultorea e corporea.
Nel mentre si combatte a gran voce per riuscire a far passare messaggi positivi sull’accettazione di se stessi; durante un’ardua battaglia per riconoscere che la valutazione estetica è un metro di giudizio penalizzante, marginalizzante e scorretto; proprio quando l’unico peso da bilanciare è quello delle parole e dei gesti affinché siano inclusivi e non più esclusivi; oggi che l’essere grass* (o di qualsiasi altra corporatura, colore, sesso, preferenza sessuale, ecc) non dovrebbe ancora essere per tanti, troppi, motivo di persecuzione, vergogna, esclusione, discriminazione e paura più delle azioni atte a marginalizzare, pubblicità e sponsorizzazioni del tutto fuori luogo non solo raggiungevano il target sbagliato, ma si rendevano ancora più indigeste anche a chi ha segnalato la cosa perché non è corretta a prescindere da chi la colga. Per carità: promuovere uno stile di vita sano e salutare non è passibile di critiche o considerazione negativa. Ma prendere con leggerezza la leggerezza, che pare sia ancora necessario caratterizzi la propria presenza nel mondo, non ha proprio un buon sapore. Non è più giusto. Non è più corretto. Disturba. Pesa.
Una macchina, un algoritmo, una piattaforma possono sbagliare. Ragionano su numeri, codici ed è una fortuna accorgersene in tempo per riequilibrare il tiro, per riconsiderare il tutto. Ma aziende e influencer che con troppa facilità promuovono missioni improbabili per raggiungere standard che già sono in discussione, dovrebbe farci riflettere. E farci porre domande. E ragionare. Con la nostra testa.
Un invito da utenti e creatori (lo siamo tutti, chi più e chi meno), ma soprattutto da persone coscienti è quello allora di guardarci alla specchio e non solo accettarci con i nostri difetti e con i nostri pregi. Ma, se proprio desideriamo migliorarci, lasciarci influenzare non dai K che spiccano nel numero dei follower, dai codici sconto e dai beveroni, ma dalla sostanza di chi dà voce alla differenza. Perché la sottile linea della differenza, online, la facciamo noi. E nessuno ci vieta di mantenerla anche fuori, nel mondo reale.