Se c’è una cosa che accomuna tutti i fotografi del mondo, professionisti e non, questa è sicuramente il National Geographic.
Abbiamo intervistato Michael Christopher Brown, Jim Richardson e Steve Mccurry ma non abbiamo mai avuto il piacere di parlare con chi, quotidianamente, seleziona le belle immagini che saranno poi stampate sul magazine di fotografia universalmente riconosciuto tra i più importanti e influenti.
Marco Pinna è redattore di National Geographic Italia dal 1998. Giornalista e photo editor, svolge il suo bellissimo lavoro (ancora un po’ sconosciuto) cercando e a volte scovando i fotografi del domani.
Impegnato a portare avanti il fotogiornalismo di qualità e la fotografia italiana in generale, lettore di portfolio per manifestazioni nazionali e internazionali, giurato, docente di photoediting e fotogiornalismo, curatore di mostre fotografiche, consulente e punto di riferimento per molti fotografi professionisti, Marco Pinna mi ha rilasciato un’ intervista che personalmente reputo non solo interessante ma anche molto costruttiva.
Parole che, per chi vuole fare della fotografia una professione, devono essere interpretate come un punto di partenza, perché fare il fotografo non è solo un mestiere, ma è un’arte che non può essere improvvisata.
Come e quando è iniziata la sua passione per la fotografia?
Fin da piccolissimo ho sempre amato avere una macchina fotografica in mano, ma la mia passione vera per la fotografia è cominciata quando avevo 13 anni, grazie a un corso di camera oscura alle medie e a un mio zio, Sandro, che era fotografo e mi ha insegnato le basi e trasmesso la passione. In seguito ho “preso in prestito” da mio padre una Nikkormat dalla quale non mi sono staccato per anni, ma non mi sono mai avvicinato alla professione di fotografo.
Come si è sviluppata la sua carriera di photo editor?
Assunto come giornalista a National Geographic Italia nel 1998, possiamo dire che mi sono ritagliato questo spazio da solo con il tempo. La redazione romana di National Geographic Magazine è piccola e non è previsto il ruolo di photo editor, un ruolo spesso sottovalutato in Italia. Ma poiché la rivista per cui lavoro dà molta importanza alla fotografia ho cominciato a occuparmene per passione e ho finito per unire questo lavoro a quello di redattore.
Come photo editor del National Geographic Italia la scelta finale delle immagini da pubblicare spetta a lei, un compito importante, ma come svolge praticamente il suo bellissimo lavoro?
In realtà in nessuna rivista il photo editor sceglie le immagini finali da pubblicare, scelta che spetta piuttosto al direttore o al caporedattore, a volte all’art director. Io in genere faccio una scrematura del grosso, selezionando le migliori foto dalla massa di immagini inviate dai fotografi, suggerisco immagini a mio avviso più adatte ai vari utilizzi, mi occupo di ricerca iconografica, segnalo fotografi o lavori interessanti e spesso assisto la nostra art director nell’impaginazione. Ciò non significa che le foto che preferisco o che ritengo più adatte non vengano utilizzate, ma diciamo che non è necessariamente così.
Durante la sua carriera avrà visto molte immagini di fotografi promettenti, ha uno o più ricordi legati a uno o più episodi che l’hanno portata a scommettere sul talento di qualcuno in particolare?
Spesso faccio letture portfolio di giovani che vogliono affacciarsi alla professione, ed è capitato ogni tanto di trovare dei lavori interessanti che poi sono stati pubblicati sul magazine. Inoltre filtro ogni mese almeno 2.000 foto inviate dai nostri lettori, alcune delle quali finiscono sul nostro sito web nationalgeographic.it o addirittura sulla rivista.
Se dovesse consigliare un giovane emergente da seguire chi consiglierebbe?
Oggi la professione di fotografo, soprattutto nel campo del giornalismo, è in grande trasformazione. L’era digitale ha sconvolto tutto e il declino dei giornali cartacei ha rivoluzionato il mercato; oggi grazie agli sviluppi tecnologici moltissimi fanno fotografie di qualità professionale e più che il talento fotografico si cerca la forma espressiva più adatta al mercato, quindi consiglierei di osservare da vicino quei fotografi che lavorano con il multimediale, con i nuovi media interattivi, con i social network. In Italia non c’è quasi nessuno che sia in sintonia con il nuovo mercato, almeno nel campo del fotogiornalismo, quindi se si vuole stare nel mercato consiglio vivamente di rivolgere lo sguardo all’estero.
Ci parli del National Geographic, meta ambita di tutti i fotografi professionisti e amatori del mondo.
National Geographic Magazine deve la sua fama tra i fotografi soprattutto a tre fattori: rigore nel rispetto delle regole del fotogiornalismo, che si traduce in affidabilità e credibilità; grande impiego di risorse per la produzione di progetti fotografici (mesi di tempo per scattare sul campo, ampi margini per la preparazione teorica del lavoro, utilizzo quasi illimitato di risorse una volta sul campo), che si traduce in qualità dei servizi fotografici; e infine stile ben definito e riconoscibile, che negli anni della pellicola era caratterizzato dai colori accesi della Kodachrome e che oggi è caratterizzato da un tipo di immagine d’impatto, quasi sempre limpida e “croccante”, crisp come dicono gli americani. La filosofia è che quando vedi una foto National devi dire “Wow!”. All’atto pratico, oggi National Geographic Magazine è forse l’unica rivista che permette a un fotografo di realizzare un servizio fotogiornalistico come si deve, con il tempo e le risorse economiche necessarie, un po’ come facevano LIFE e altre riviste illustrate nell’epoca d’oro del magazine, dagli anni 30 agli anni 70 del secolo scorso.
Parliamo adesso dell’evoluzione che la fotografia sta avendo: come sta cambiando secondo lei? Sta diventando più difficile scovare veri talenti?
Come ho detto prima, siamo in un momento di grande trasformazione, e non sappiamo come andrà a finire. La nuova fotografia del web mainstream è fatta di sensazionalismo, di colori, di “icone”, e non c’è molto spazio nel mercato attuale per i lavori di approfondimento serio, che troviamo nei libri, nelle mostre, nelle riviste specializzate, insomma in prodotti di nicchia rivolti alla comunità fotografica, ossia a un pubblico ristretto che apprezza e riconosce il lavoro che c’è dietro un progetto fotografico a lungo termine.
Cosa dovrebbe fare un giovane che volesse diventare professionista, ma che, come unica esperienza, ha la fotografia mobile?
Studiare, studiare, studiare. Frequentare corsi, workshop, mostre, eventi, entrare in contatto con le comunità fotografiche, leggere libri e studiarsi la storia della fotografia. Oggi tutti vogliono essere fotografi, ma a meno che non abbiano capacità innate, e ce le ha forse uno su mille, devono mettersi di grande impegno e crederci fortemente. La fotografia di qualità si può fare anche con il telefono mobile come dimostrano fotografi come Michael Christopher Brown di recente entrato a far parte di Magnum, ma nessuno “nasce imparato”; bisogna studiare la storia, le regole e la tecnica, come in qualsiasi altro campo. Poi le regole si possono anche infrangere, ma prima bisogna acquisire le basi.
Il profilo Instagram del Nat Geo è tra i più seguiti a livello mondiale, ritiene che questo nuovo mezzo sia importante per divulgare la bella fotografia?
Direi proprio di sì, anche se Instagram viene utilizzato attualmente per gli scopi più vari, anche puramente commerciali o personali.
Il suo rapporto con Instagram com’è? Ha un profilo IG personale? Se sì, ci può dire il suo nickname e come lo utilizza?
Sì, in effetti utilizzo Instagram per seguire molti fotografi che amo o che mi interessano e che postano lì le loro immagini, sia scattate col telefonino sia caricate da file scattati con la reflex. A volte si vedono cose straordinarie e inaspettate. In questo senso non è tanto diverso dall’utilizzo che facevo, e faccio tuttora, di Flickr, anche se lo stile fotografico Instagram è un po’ diverso, più in linea con il mercato attuale se vogliamo, in cui una foto deve essere efficace anche in un formato piccolo, sullo schermo di un telefono. Sì, ho un profilo, ma lo utilizzo più per foto personali o per giocare con Hipstamatic e altri software come Shake It, quindi mi perdonerete se preferisco non divulgarlo al grande pubblico…